La stampa nazionale e il mito dei “giovani di successo”

Giovani prodigi e lauree in tempi record, il mito dei “giovani di successo” sembra piacere molto ai media nazionali, che non smettono di documentare in modo assai puntiglioso i casi di eccellenza dei nostri atenei. Ma in un contesto caratterizzato da un tasso di abbandono scolastico crescente e da una diseguaglianza intrinseca, parlare di “laureati prodigio” e presentarli come il miglior modello di vita da perseguire è quantomeno offensivo.

Dove sono tutti gli altri?

Sfogliando le pagine dei quotidiani non è raro imbattersi in lunghi articoli riguardanti le imprese di giovani dall’innegabile talento che sono stati in grado di affrontare un percorso universitario standard in tempi record. Il caso di Carlotta Rossignoli, studentessa in medicina e chirurgia presso l’Università Vita Salute San Raffaele a Milano che si è laureata ad appena ventitré anni, ad esempio, è riuscito a riscontrare un’attenzione mediatica particolarmente rilevante, forse anche a causa di una serie di incongruenze e peripezie che l’hanno vista come protagonista. Ma il suo caso non è certo l’unico.

Gli esempi di “laureati prodigio” non sono pochi, anche se il numero di coloro che riescono in un’impresa del genere non è nemmeno paragonabile al numero di studenti iscritti a un percorso universitario. I “laureati prodigio” sono quindi un’esigua minoranza che riesce a catturare su di sé un’attenzione mediatica enorme. È interessante notare come il tema degli studenti universitari venga trattato con sufficienza dai media solo in due casi: quando riescono a laurearsi con netto anticipo rispetto ai coetanei o quando, schiacciati da una pressione sociale eccessiva, decidono di porre fine alla propria vita. Due casi estremi e opposti che rendono tutti gli altri studenti dei fantasmi proprio perché non degni di nota.

Quali sono i vantaggi di una simile narrazione?

I laureati prodigio, per quanto degni di lode e ammirazione, non sono che dei casi isolati. È giusto che questi ragazzi, di cui non si mette in discussione l’impegno e la fatica nell’affrontare il percorso di studio prescelto, vengano premiati per le loro capacità e il loro traguardi. Tuttavia, a essere profondamente sbagliata è l’immagine che i media nazionali tendono a realizzare sulle loro imprese.

Normalizzare un approccio agli studi di questo genere crea una visione distorta di quello che dovrebbe essere il percorso universitario. Intraprendere un percorso universitario non significa fiondarsi su una serie di esami e superarli senza guardarsi indietro, ma affrontare tappa per tappa con la velocità che si ritiene necessaria per apprendere al meglio. Dopotutto, l’università non è una gara a chi finisce prima, ma un percorso strutturato che richiede di essere affrontato con un tempo diverso per ogni studente. Incentivare gli universitari a dare il meglio di sé per laurearsi con anni di anticipo, sacrificando sonno e relazioni sociali, concorre ad alimentare quello spirito di competitività eccessiva che logora gli animi, crea una visione distorta della realtà e non aiuta quello un’università dovrebbe fare: educare le generazioni future. Quindi, a chi giova questo tipo di narrazione?  A nessuno se non allo studente stesso, alla sua famiglia e all’università che lo ospita, spesso privata, e che vede nella sua impresa un’occasione per farsi pubblicità.

Le università: un mondo non accessibile a tutti

La rincorsa al “mito dell’eccellenza” e la retorica del “duro lavoro” etichettano come dei “falliti” tutti coloro che non riescono nell’impresa di laurearsi con traguardi d’eccellenza. La logica del merito, quindi, e con essa il tono trionfalistico con cui viene raccontata dai media, degrada tutti coloro che non riescono a sostenere questa inusuale carriera universitaria al degradante livello di “fannulloni”. Il tutto, però, non tiene conto che il punto di partenza non è uguale per tutti e che il contesto di provenienza influenza in modo quasi indelebile il futuro di ogni studente.

Il report di Almalaurea sui laureati del 2020 fornisce una panoramica degli atenei universitari italiani molto critica. Attraverso un’analisi attenta si è notato come una famiglia in cui genitori hanno conseguito un percorso di studi più avanzato, giungendo a ottenere un grado di istruzione maggiore, sono in grado di sostenere economicamente i figli che studiano di più e che, per questo, ritardano il loro ingresso nel mondo del lavoro. In un paese in cui è chiaro che l’istruzione non viene premiata nel modo in cui dovrebbe essere, la famiglia di provenienza influenza molto anche la percezione che si ha dell’università e dell’istruzione in generale. Di conseguenza, secondo quanto analizzato da uno studio dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp), chi proviene da un contesto più benestante riuscirà a consolidare la propria posizione, mentre chi proviene da un contesto più critico avrà sempre maggiori difficoltà.

Il grido di aiuto di chi non ci riesce

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a livello globale il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani al di sotto dei trent’anni. Solo in Italia l’Istat stima circa 200 suicidi all’anno tra gli under 24, a cui si aggiungono oltre un migliaio di vite che vengono salvate in extremis. Un’alta percentuale di questi giovani è composta da studenti universitari che, schiacciati da un sistema che non li comprende, decidono di porre fine alla propria vita. Le motivazioni dietro un gesto così estremo non possono essere mai ricondotte a una sola causa, ma la pressione sociale che gli studenti vivono tutti i giorni potrebbe incidere in modo alquanto rilevante ed essere la goccia che fa traboccare il vaso.

La volontà di costruire il mito dell’eccellenza fomenta un senso di inadeguatezza e una pressione così forte che rischia di creare livelli di depressione e ansia che non hanno paragoni nel resto della popolazione giovanile. Creare la retorica del “mito dell’eccellenza”, quindi, ha un costo e spesso a pagarlo sono proprio gli stessi studenti che la subiscono.

La scuola e l’università non sono strumenti a servizio di tutti perché caratteri di fattore economico, sociale e culturale influenzano il futuro di ogni studente fin dal primo giorno di scuola. La conseguenza è che il nostro è un Paese in cui, per quanto valga studiare, l’istruzione non è premiata come dovrebbe essere e dove la formazione scolastica non concorre a spianare le disuguaglianze e le iniquità che lo caratterizzano.

 

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