“Lamb”: il nuovo concetto di horror

Cosa c’è di più inquietante di qualcosa così simile a noi, ma al tempo stesso così profondamente diverso?

In Lamb, esordio del regista islandese Valdimar Jóhannsson, il concetto di madre natura viene estremizzato fino a diventare una parabola orrorifica a tratti sovrannaturale. Sì perché in questo film, il genere horror viene ancora una volta interpretato in chiave moderna anche grazie all’impronta stilistica autoriale della casa di produzione A24, che già con Midsommar, The Lighthouse e The VVitch aveva dato prova del cambiamento stilistico e delle vastissime possibilità di questo genere cinematografico. Presentato nel 2021 nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes, è stato premiato per la sua audacia ed originalità.

Lamb è ispirato a un sogno che fece Jóhannsson da adolescente. Nel sogno enormi arieti vagavano per i campi: “È un ricordo che avevo completamente rimosso, ma più di vent’anni dopo è confluito inconsciamente in uno dei sogni fatti da Maria nel film”.

L’importanza dell’ambiente

L’atmosfera è inizialmente fin troppo tranquilla, il che ci fa presumere che sicuramente si cela qualcosa di spaventoso dietro questa coppia così in armonia con la natura. Maria (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmir Snær Guðnason) vivono infatti in una fattoria in mezzo alle montagne dell’Islanda circondati solo da questa immensa e fin troppo ingombrante natura circostante, che contribuisce ad appesantire il clima psicologico. Vivono da soli e passano le giornate a concimare la terra, riparare guasti al trattore, cibare i loro agnelli e godersi l’isolamento.

Si percepisce però che qualcosa è rotto dentro di loro, nel loro rapporto fatto di ripetitività e alienazione. I loro sguardi sono spenti, l’atmosfera è gelida come quella del paesaggio che li circonda e li opprime, non c’è mai un raggio di sole pronto a far svoltare la giornata. In un dialogo Ingvar riferisce stupito alla moglie che ci sarà la possibilità — per ora solo teorica — di viaggiare nel tempo: a lui non interessa sapere il futuro, mentre a lei piuttosto interessa rinvagare il passato. Ma perché?

Nei primi venti minuti di film i dialoghi sono ridotti all’osso: Jóhannsson mostra la maestosità dell’ambiente attraverso lunghe e fisse inquadrature, alternandole ripetutamente a quelle dei loro animali, facendoci capire subito l’importanza che entrambe le cose assumono nella vicenda. Perché in Lamb la natura è generatrice, è una forza potentissima contro la quale non ci si può — o dovrebbe — opporre.

Le simbologie: Ada

Il piccolo agnello che nascerà sconvolgendo la vita dei due è il protagonista indiscusso della vicenda. Una creatura dalle sembianze umanoidi che dopo ben mezz’ora dall’inizio della pellicola demolisce tutti i presupposti che ci avevano fatto intendere la storia come qualcosa di attinente alla realtà. Poco dopo capiamo che la loro apatia nei confronti dell’esistenza deriva dalla perdita prematura della loro primogenita, Ada. Il timore che il futuro si possa ripetere uguale al passato li destabilizza, innescando un attaccamento morboso nei confronti di quella che sembra essere diventata la loro unica ragione di vita: l’agnello — che guarda caso chiameranno proprio Ada —.

Il sovrannaturale prende piede in maniera sempre più ingombrante in un racconto che si rifà senza ombra di dubbio a credenze popolari e alle storie legate alla mitologia islandese. In alcune di queste leggende è fondamentale la presenza di una dimensione narrativa in cui il confine tra animale e umano è sempre più labile. Nelle tradizioni contadine e nei racconti folkloristici gli animali entrano in contatto (anche verbale) con gli umani, ne diventano amici o nemici, assumendo sempre di più una connotazione lontana da quello che erano in origine.

In Lamb la relazione tra uomini e animali si concretizza nei loro sguardi, nella lotta per la sopravvivenza e nella rabbia che gli umani covano nei confronti delle bestie.

Le simbologie: tra arte e religione

Questo animale è inoltre tra le icone principali dell’arte cristiana soprattutto in riferimento a Cristo e più in generale alla cristianità. Simbolo di sacrificio e di rinnovo periodico del mondo, l’agnello può quindi rappresentare un cambiamento, quasi un segno divino della potenza di madre natura e della sua capacità di creare cose al di sopra della nostra conoscenza ed immaginazione.

Un’altra simbologia interessante, e che può essere da spunto per delle interpretazioni, è quella dell’agnello come dono divino. Il fatto che come per miracolo gli sia stata concessa una seconda possibilità attraverso la nascita di questo umanoide, è da interpretare come un possibile messaggio di misericordia.

La figura materna

Il tema della maternità è molto presente in Lamb, non solo perché Maria mostra fin da subito un viscerale attaccamento a questa creatura portandola via dalla sua vera madre, ma perché ne esistono di diverse: la natura, la donna e l’agnello. Tra le tre nascerà una vera e propria lotta che mieterà vittime ingiustificate, prima tra tutte la pecora che rivendicherà la sua maternità al costo della vita.

Questo equilibrio inquietante che si crea in seguito alla nascita di questa felicità — è così che definisce il piccolo agnello Ingvar — contribuirà a rendere la narrazione sempre più angosciosa fino all’arrivo del fratello di lui, un criminale in cerca di un rifugio temporaneo. A questo punto la percezione distorta che avevamo dei due nuovi genitori si ristabilisce, dato che capiamo che i loro atteggiamenti sono obbiettivamente strani e mossi da una imprevedibile ed intrinseca pazzia mista all’insoddisfazione.

A sottolinearlo la presenza di questa continua sensazione di ansia e incertezza rispetto alle conseguenze delle azioni di Maria. La trasgressione e la minaccia rispetto all’ordine naturale delle cose, non fanno altro che alimentare le conseguenze negative che vedremo alla fine del film. Ad ogni azione corrisponde una reazione, non ci si può opporre a madre natura e alle sue creazioni.

L’evoluzione del genere horror

Nonostante la critica statunitense lo abbia descritto come un horror, Lamb è più che altro un dramma familiare. In esso sono messe in scena dinamiche sovrannaturali ma che al tempo stesso innescano un’empatia con lo spettatore, il quale si ritrova a dover accettare — un po’ come il fratello di Ingvar — la surreale situazione, affezionandosi al dolce agnellino.

Un nuovo modo di fare horror quindi, lontano dagli stereotipi di genere ma che invece si avvicina maggiormente ad una dimensione onirica che gioca sul concetto di cosa è vero e cosa no, il che genera molta più inquietudine rispetto a quanto si possa credere.

 

FONTI

a24films.com

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