Burri e Giacomelli: la matericità della fotografia

L’ho conosciuto per caso, tramite quel ragazzo che adesso cura tutte le sue cose, Nemo Sarteanesi. Un giorno venne in tipografia e mi disse: “Burri vorrebbe conoscerla di persona”.

Mario Giacomelli

La mostra al Maxxi di Roma

Dal 3 dicembre 2021 al 6 febbraio 2022 il Maxxi di Roma ha proposto una mostra che pone a confronto le fotografie di Mario Giacomelli con le pitture di Alberto Burri. Opere come Cretti (1971), Combustioni (1965) e Cretto (1971) dialogano con i progetti fotografici realizzati in bianco in nero da Giacomelli, con l’obiettivo di rappresentare matericamente la natura. Ciò che emerge dall’esposizione, oltre al corretto utilizzo delle tecniche di allestimento, è il rapporto tra natura e materia e di come queste condizionano la natura umana.

Le fotografie di campi arati si trasformano in un linguaggio astratto di tipo geometrico che racconta il lavoro dell’uomo e del suo rapporto con la natura e i relativi effetti. Metamorfosi della Terra, Presa di coscienza sulla naturaStorie di Terra si presentano come serie fotografiche che indagano l’intervento antropico sulla natura: la fotografia, quindi, come denuncia della complessità del reale.

Le fotografie incontrano le opere di Burri e i documenti di archivio: se le prime offrono la possibilità di indagare le sperimentazioni materiche dell’artista, i secondi sono importanti per comprendere i due artisti. Un rapporto che prima di tutto è stato umano, di rispetto e riconoscenza dei rispettivi lavori. Come avviene spesso nella storia dell’arte, le trame per una riflessione sono infinite, e la mostra al Maxxi ha offerto un grande spunto di riflessione, sia umano che ambientale.

L’incontro tra Burri e Giacomelli

Giacomelli incontra Burri per la prima volta nel 1966, a presentarglielo è Nemo Sarteanesi, pittore, intellettuale, amico dell’artista, che con lui dà vita all’omonima Fondazione e che, in due occasioni, organizza mostre di Giacomelli a Città di Castello (1968, 1983).

Alessandro Sarteanesi

L’incontro a tre è fatale. Il fotografo e il pittore si confrontano per indagare la realtà per poi restituirla matericamente. Nemo Sarteanesi mette in contatto i due artisti e ne nasce un sodalizio, che però si consolida solo in due occasioni. Il rapporto tra i due artisti è l’esempio di come l’arte del XX secolo sia aperta a incontri e a sperimentazioni, partendo sempre da un punto di contatto: l’indagine della condizione umana. Spunti di riflessione comuni, ma con tecniche, strumenti e materie completamente diversi; che, messi insieme, ci offrono un’Italia profonda e in pieno cambiamento.

Mario Giacomelli

Senza Titolo, anni Settanta.

Mario Giacomelli nasce a Senigallia nel 1925. Considerato dalla critica come colui che ha segnato la storia dell’arte del XX secolo, a ventotto anni esordisce come fotografo. Giacomelli utilizza la pellicola fotografica come superficie sulla quale imprimere forme, composizioni e soggetti in relazione tra di loro, per delineare la relazione tra il suo sguardo, la natura e la condizione umana. Le sue fotografie sono espressive, perché sono il risultato di una ricerca libera da pregiudizi, ma, allo stesso tempo, attenta all’evoluzione dei linguaggi dell’arte e della società contemporanea.

Nei progetti fotografici con soggetto le classi più povere, Giacomelli indaga la profonda trasformazione dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Celebri sono i progetti come Scanno del 1957-1959; La Buona Terra del 1965-1966, dove riporta la quotidianità di una famiglia contadina. In Vita d’ospizio nel 1955-1957 e in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi nel 1966-1968, Giacomelli fotografa gli ospiti di una casa di riposo, per riflettere sul tema della caducità della vita e l’attesa senza prospettive della morte. Il tema della solitudine è anche il fulcro della serie del 1961-1963 Io non ho mani che accarezzano il volto, la quale è sintetizzata con la spensieratezza dei giovani seminaristi, fotografati con l’abito talare.

Senza Titolo, anni Settanta.

La ricerca di Giacomelli spazia dai ritratti, eseguiti con capacità tipografica, alle fotografie astratte di paesaggi e ambienti. Sono questi ultimi soggetti che ci conducono a Burri: Favola, verso possibili significati interiori del 1983-1984 e Bando del 1997-1999, dove l’attenzione al paesaggio si mostra altissima. Il paesaggio è l’unico soggetto che attraversa la produzione di Giacomelli in tutta la carriera; ed è qui che è possibile trovare il percorso di Giacomelli dalla realtà all’Informale.

Alberto Burri

Alberto Burri, Nero Cellotex, (porto di Beaulieu-sur-Mer), 1992, acrilico, pietra pomice, vinavil su tela, Galleria dello scudo Verona.

Burri, nato a Città di Castello nel 1915, è riconosciuto come colui che ha rinnovato l’arte, sia dal punto di vista materico che concettuale. Dopo una formazione umanistica e una laurea in medicina, nel 1940 viene arruolato come ufficiale medico in Albania, Montenegro e Tunisia. Qui, nel 1943 viene fatto prigioniero dall’esercito inglese e viene portato in Texas, dove inizia a dipingere. Nel 1946, a guerra ormai conclusa, rientra in Italia, per avviare la sua carriera di artista. A Roma durante gli anni Cinquanta, nel suo primo atelier in Via Mario de’ Fiori, sviluppa la sua serie dei Sacchi, nella quale concepisce e utilizza il tessuto di juta come la pellicola pittorica.

Tuttavia, la sua ricerca materica non si ferma al tessuto. Burri utilizza sabbia, catrame, colla e pietra pomice per studiare la processualità della materia e per utilizzarla come strumento pittorico. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, Burri sviluppa ulteriormente la sua ricerca. Infatti, l’utilizzo del legno e del ferro combinato all’utilizzo della fiamma danno origine a lavori come Legni, Combustioni e Ferri. Negli anni Sessanta, Burri introduce anche la combustione della plastica, che Argan descrive in questo modo nel 1962:

La sceglie, credo, proprio per la sua inconsistenza e ambiguità, il suo esserci e non esserci, il suo ‘vedere e non toccare’; per la proprietà, che possiede, di distruggersi istantaneamente al primo contatto con la fiamma, di bruciare senza calore. 

Con questa serie, Burri raggiunge l’apice nella sua pittura. Egli, infatti, concepisce il dipinto come un organismo vivente, nel quale la materia è in continua trasformazione. Questo concetto viene da lui utilizzato negli anni Settanta per la serie dei Cretti e dei Cellotex, dove esplora le possibilità architettoniche della materia. Tuttavia, è proprio qui che emerge la dicotomia tra l’imprevedibile trasformazione della materia e la pittura come elemento di controllo. Burri, cofondatore del movimento Origine nel 1951, è considerato come il maestro dell’Informale e dell’astratto non figurativo, la cui pittura è una presenza che rifiuta la sua traduzione in elementi del reale.

Il dialogo

Le intense immagini di Giacomelli sorprendono lo stato d’animo nella nitida definizione, ora lirica ora dolente. Figurazioni spoglie si stagliano tese in una ricerca di essenziale significazione, tradotta con lo stringato linguaggio dei bianchi puri e dei neri assoluti. Memori di remote voci, le evocazioni della natura sono segnate da solchi laceri nella grafia ricca di modulazioni: antica presenza dell’uomo cristallizzata nel tempo. 

Nemo Sarteanesi, 1968

La serie dei Cretti neri in mostra.

Il cretto, come luogo della memoria, è l’idea di fondo della mostra. L’opera Il viaggio n. 4, non in mostra ma simile ai cretti neri esposti, può essere presa in considerazione per spiegare questa metafora. L’opera si presenta come una spianata di crepe, arida, secca e bianca. Simbolo di una terra desolata, abitata da ruderi o utilizzata per la coltura. Sono opere che hanno all’interno il lato umano del lavoro nei campi; il loro logorio e la loro memoria.

Lo stesso avviene con le foto di Giacomelli. Anche qui, il bianco e il nero sono predominanti e le grandi panoramiche ritraggono vasti campi lavorati dell’entroterra marchigiano. I campi coltivati sono solcati dal lavoro dell’uomo, il quale sfrutta la terra per la propria sussistenza. Lo stesso fa Burri con la materia, la quale viene utilizzata per rinforzare la curiosità dell’artista, volto ad espandere la sua esperienza pittorica.

Per una considerazione

La mostra pone in dialogo i due artisti sia dal punto di vista materico che ideologico. Partendo dal primo punto, Giacomelli interpreta il paesaggio come elemento modificato dall’uomo e per questo in continuo divenire. Così come considera le sue foto non finite, ma parte di un tutto che si evolve e che prende senso, forma e vitalità proprio dai rapporti dei singoli elementi che lo compongono. Giacomelli considera le sue serie fotografiche come un complesso sistema organico, elemento che ci ricollega al concetto di dipinto per Burri. Per questo, infatti, la materia è quella pittorica che lui considera in quanto tale e come strumento per comunicare o rappresentare.

Venendo al secondo punto, dal punto di vista ideologico appare chiaro che ciò che li accomuna è l’attenzione al dato umano. L’Italia degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta è un continuo laboratorio di norme ed eventi difficili da seguire. Eppure, Giacomelli con le sue fotografie e Burri con i suoi dipinti, riescono a catturarla. Semplice risulta interpretare le ferite dei Sacchi come quelle subite in guerra, oppure i campi abbandonati di Giacomelli come simbolo della corposa migrazione interna. Tuttavia, questo tipo di lettura può essere utilizzata in quanto contestualizza maggiormente i lavori materici dei due artisti.

Diciamo pure: pitture, ma esse sono nutrite di un materiale che della pittura conserva soltanto una tragica reminiscenza, quasi come asfittica; un materiale devitalizzato e già coartato dal deperimento.

Emilio Villa

Ed eccoli qui, due rappresentanti dell’Informale italiano, i quali con i loro strumenti hanno raccontato l’Italia matericamente: terra e cultura.

 


Fonti

archiviomariogiacomelli.it

maxxi.art

Burri, in I Maestri dell’Arte Italiana (a cura di Flaminio Gualdoni), Centauria, Milano 2020.

Credits

Tutte le immagini sono a cura del redattore.

 

 

 

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