“Ferito a morte” di La Capria è al Piccolo Teatro

“Questa città ti ferisce a morte o t’addormenta”. Queste le celebri parole che rimangono impresse nella mente degli spettatori che assistono a Ferito a morte, al Piccolo Teatro. Come un mantra, la frase viene ripetuta più e più volte dai numerosi personaggi che popolano la scena. Napoli è la protagonista assoluta del romanzo omonimo di Raffaele La Capria, vincitore del Premio Strega nel 1961 e recentemente scomparso. Ferito a morte, in scena nella sala Strehler, è diretto da Roberto Andò grazie all’adattamento per la scena di Emanuele Trevi. La scelta di trasformare il celebre romanzo in uno spettacolo teatrale rappresenta uno dei primi tentativi riusciti di adattare un’opera letteraria tanto complessa, caratterizzata dalla sovrapposizione di diversi registri stilistici, linguistici e piani temporali, alla scena.

Ferito a morte è uno spettacolo molto complesso, eppure la sua trama è riassumibile in poche e semplici parole. Un uomo, sul punto di partire dalla propria città, evoca il passato. Nel giro di poche ore, sul palcoscenico appaiono i ricordi di una vita vissuta, in una Napoli caotica e popolare. Gli assi temporali dello spettacolo si sovrappongono creando intrecci complessi ma piuttosto interessanti. Massimo adulto, il protagonista, osserva i propri ricordi dall’angolo del palcoscenico, emblematicamente rappresentante la sua camera. I ricordi – concretizzati in scene e personaggi – sono dunque creazioni della sua stessa mente e si muovono sulla scena come burattini. Per questo, immediata sembra essere l’associazione tra il protagonista e la figura del regista teatrale: anche quest’ultimo, infatti, evoca gli spiriti dei personaggi e li fa muovere durante lo spettacolo teatrale.

Scenografia e spazi del romanzo di La Capria

Il palcoscenico è nettamente diviso in due spazi. Il proscenio è riservito al Massimo adulto; in particolare, sul lato destro è posizionato il letto, arricchito da oggetti che evocano una camera cittadina. Il resto del palco, suddiviso in due piani, rappresenta lo spazio della mente popolato da ricordi. Le singole scene, i ricordi appunto, escono da quelli che si possono definire “cassetti” della mente. La scenografia è infatti strutturata in modo geometrico: il piano orizzontale è diviso in tre scompartimenti da cui, di volta in volta, scaturiscono diversi personaggi e ambientazioni. Come anticipato, ciascuna scena, ben definita all’interno degli spazi, è scenograficamente piuttosto ricca. Le ambientazioni casalinghe e cittadine infatti non sono soltanto evocate, ma ben rappresentate, grazie all’utilizzo di numerosissimi oggetti che popolano la scena. Ben lontani dal concetto di teatro povero di Grotowski, l’intento sembra essere quello di riprodurre nel dettaglio ambienti e atmosfere, con un’impostazione di tipo quasi cinematografica.

Il rimando al linguaggio cinematografico è chiaramente visibile sin dalla prima scena. Non appena il sipario si apre infatti, una voce racconta un celeberrimo episodio del romanzo, in cui si evoca l’antica passione di Massimo: la pesca. L’episodio viene raccontato grazie a una proiezione cinematografica che mostra gli abissi dell’oceano e focalizza l’attenzione su un pesce e sui suoi ultimi istanti di vita. Tuttavia, l’ausilio del cinema viene sfruttato durante l’intero spettacolo. In effetti, frequentemente sul palcoscenico vengono proiettate immagini in movimento che evocano il mare. Si tratta dunque di una interessante mescolanza di registri espressivi che attingono tanto dalla tradizione, quanto dalla modernità.

Ferito a morte: frammenti di vita di un uomo

Come la scenografia, anche i piani temporali restano ben distinti durante la narrazione. Sul palcoscenico sono infatti contemporaneamente presenti due diversi frammenti temporali, due momenti della vita di un uomo. Raramente questi si incrociano: solo a volte Massimo entra nella scena e interagisce con il proprio passato, prendendo parte in modo attivo alle dinamiche e diatribe famigliari che si stanno sviluppando nel “qui e ora” della narrazione. Nella maggior parte dei casi, il Massimo adulto si limita a osservare il ricordo, reagendo solo emotivamente.

L’adattamento per la scena di Emanuele Trevi e la regia di Roberto Andò sono estremamente efficaci per onorare uno dei romanzi più importanti della letteratura novecentesca italiana, avvalorandone l’autenticità e la semplicità. Il supporto visivo che il teatro può offrire consente di evocare correttamente i salti temporali e di rappresentare naturalmente la struttura frammentata del romanzo. Il mezzo teatrale dunque è coadiuvante per la buona riuscita della narrazione e accompagna lo spettatore in un viaggio nel cuore di una Napoli d’altri tempi.

CREDITS

copertina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.