internet empatico

Il nuovo giornalismo: quanto costa l’empatia di Internet

L’empatia è la capacità di stabilire una connessione, di cogliere lo stato d’animo di un’altra persona o di un gruppo in modo immediato, senza il ricorso alla comunicazione verbale. Si riferisce a fenomeni di immedesimazione e partecipazione reciproca che istanziano una correlazione quasi istintiva. Da quando Jonah Peretti, fondatore di «BuzzFeed», ha scoperto che Internet è empatico le cose sono cambiate per sempre.

Persone nella rete

Non si tratta, ovviamente, di affermare che l’insieme interconnesso delle reti informatiche di telecomunicazione riesca a comprendere i sentimenti delle persone, né che ci sia un contatto emotivo tra questa e gli utenti. Il progresso dell’intelligenza artificiale forse un giorno ci porterà a questo, ma l’empatia di Internet sta in altro. 

L’intuizione alla base è che i contenuti abbiano a che fare con l’identità e quindi per risultare vincenti, virali nella rete, devono rispondere alle esigenze e ai bisogni di un soggetto particolare e della sua percezione di sé. Nel produrre contenuti si deve quindi considerare uno stereotipo di lettore, un archetipo standard – che per Peretti e il suo team era “Pizza, Netflix e Beyoncé”, l’americano medio.

Il futuro della comunicazione mediale si è rivelato infatti come una combinazione tra informazioni e contenuti sociali ed emotivi. Il mondo di Internet, inizialmente utilizzato per usmare lo spirito del tempo, si è trasformato in uno spazio per la condivisione. Ed essa è primariamente condivisione di sé, il web si è andato via via personalizzando, superando l’approccio monodirezionale, per quanto vastissimo, e asettico di Google. Infatti il modello che ha dominato, e tuttora domina, su Internet è quello di Facebook.

L’idea di Zuckerberg fu quella di connettere le persone con i loro amici e di dare loro i mezzi per comunicare e interagire tra loro. Ben presto Peretti rilevò che i moventi fondamentali della condivisione social non erano altro che la necessità di un appagamento degli impulsi narcisistici ed esibizionisti. Tendenze connaturate all’umano, ma che, se stimolate, portavano a livelli di produzione di contenuti, e quindi interazioni con la rete e viralità, straordinari.

Dalla massa all’audience

Per il giornalismo questo ha comportato un radicale cambiamento di paradigma. Nei media tradizionali la modalità comunicativa era essenzialmente di broadcast, cioè unidirezionale, da un trasmettitore a molti riceventi. Questo implica una sostanziale distanza tra il mittente e il destinatario e una specifica inconoscibilità di quest’ultimo. L’unico tipo di ricerca possibile sul ricevente era un’indagine quantitativa, di fatto statistica, numerica per vedere in quanti fruissero del messaggio, televisivo, radiofonico o su carta stampata. Il pubblico era ridotto a una massa amorfa e indifferenziata, priva di connotazioni specifiche, e di interessi. Era una cosa, non un chi. 

Già dagli anni Cinquanta però, l’introduzione del metodo etnografico ha permesso di svolgere una ricerca, per quanto delicata e molto più dipendente dal ricercatore, di tipo qualitativo. Si iniziò a parlare di audience e di audience differenziati a seconda degli interessi, delle condizioni e delle subculture di riferimento. Si iniziano a profilare i consumatori e quindi a confezionare dei prodotti indirizzati al pubblico di riferimento. Questo spostamento di attenzione verso il fruitore implica uno cambio del modello di comunicazione che si trasforma in influenza reciproca. 

Oggi: il prosumer

L’evoluzione, che porta al modello attuale, si ha con l’introduzione di internet e in particolare dei social media. Ciascuno è contemporaneamente consumatore e produttore di contenuti. Sorge la figura del prosumer, che spazia in un mondo mediatico non più bipartito tra reale e virtuale, ma globalmente integrato nel digitale. In rete non si trovano più solo contenuti o prodotti, ma esperienze che fanno parte a pieno diritto della vita dell’utente, finalmente protagonista. Ecco quindi che al centro si trova la persona e non più né il mezzo, né il contenuto, men che meno il broadcaster. Nell’era di Internet l’utente è centro e limite dell’orizzonte della propria rete

La crisi dei giornali

Il giornalismo tradizionale, il celebre “quarto potere”, cane da guardia delle istituzioni, non ha compreso il mutamento nelle modalità di comunicazione. E forse, soprattutto, non ha voluto cedere la propria posizione privilegiata di detentore di informazioni, in gergo gatekeeper. Per questo si è trovato in una situazione di crisi profondissima, che perdura tutt’oggi, e che ha costretto il mondo dell’informazione prima, controvoglia, ad adeguarsi e poi a ripensarsi radicalmente.

Il passaggio dal modello uno-a-uno (trasmettitore-ricevente) a quello uno-a-molti aveva già esteso l’ampiezza del pubblico e le differenze nella comunicazione. Si era declinato nell’introduzione di nuove riviste, programmi, inserti e rubriche destinati ai diversi audience che erano stati profilati. Di fatto un interesse verso settori fino a prima esclusi come quello femminile, giovanile o di categoria (automobili, finanza, arte…).

Sacerdoti della verità

La presbiopia di una classe sociale ben consolidata e autocompiaciuta ha impedito al giornalismo di evolversi insieme ai suoi tempi e ad accettare il modello prevalente della comunicazione molti-a-molti. Jill Abramson, giornalista e direttrice del «New York Times» dal 2011 al 2014, nel suo libro sulla recente storia dell’informazione “Mercanti di verità”, afferma che la rivoluzione digitale fu vista come il problema del secolo, motivo per cui il 2009 fu denominato come l’anno in cui sono morti i giornali. Effettivamente, solo in America l’anno precedente avevano chiuso più di 160 testate e i licenziamenti nel settore non accennavano ad arrestarsi, diminuendo la qualità e la copertura delle notizie. In Europa, e in particolare in Italia, il tracollo avverrà in particolare negli anni successivi, legato indissolubilmente alla crisi economica. Si trattava di un prodotto vecchio, non al passo con i tempi e con i gusti. La credibilità inoltre andava sempre più scemando.

Innovare o morire?

Perché queste nuove modalità di comunicazione hanno messo così in crisi un elemento indispensabile, o che almeno era sempre stato considerato tale, per il funzionamento della società moderna? Il ruolo del giornalismo è così facilmente sostituibile?

No, di fatto, ma occorreva innovarne la forma. I siti dei giornali non erano che la mera riproduzione della versione cartacea e non aggiungevano niente che un utente qualsiasi non potesse trovare altrove. Su Internet infatti non circolavano solo immagini, frivolezze ed elementi di scarso contenuto, ma anzi tante, e forse troppe, informazioni. Si era realizzato il sogno dell’interconnessione continua e contemporanea dell’io con il mondo. La possibilità di essere sempre aggiornati e informati su tutto è diventata realtà ed è la risposta a una delle necessità più essenziali dell’uomo in senso lato. Ciò che mancava era però un criterio di demarcazione, quelli che per i giornalisti erano i valori di notiziabilità.

Avviso ai naviganti

L’utente si è trovato catapultato in un nuovo universo sconosciuto che si sviluppa, almeno, di due dimensioni. Da un lato quella del “creator” che impegna quotidianamente per migliorare la condivisione di sé e della propria immagine aumentando il numero degli amici, dei seguaci e dei “mi piace”, gratificazioni introdotte da Facebook nel 2010 in uno slancio empatico. Dall’altro quella di navigatore libero dal flusso del mainstream, ma senza mappe o indicazioni. Sommerso in un profluvio di informazioni come mai nessun altro uomo nella storia del pianeta fino al sovraccarico cognitivo, incuriosito finché non inibito

Non tattiche ma strategie

Il percorso di trasformazione, e non solo transizione, del giornalismo non si è di certo arrestato, ma ha raggiunto dei punti saldi che vanno segnalati. Innanzitutto la maggioranza delle testate più importanti ha osato infrangere il grande dogma di Internet: la gratuità. La grande eccezione a livello mondiale è costituita dal quotidiano inglese «The Guardian», innovatore dal primo giorno, il cui accesso è libero, proponendo però contenuti premium e approfondimenti solo ai sottoscrittori.

Il «New York Times» dopo un’attenta elaborazione, durata più di un anno e mezzo, ha sviluppato un modello di abbonamento settimanale, mensile o annuale. Contestualmente propone un sistema di paywall in cui i lettori possono pagare una tantum per accedere a un certo numero di articoli. Il tutto è strutturato in modo da proporre un eventuale pagamento solo dopo aver consultato diversi articoli, non solo breaking news, e soprattutto lasciando libero accesso agli utenti a venti articoli ogni mese. In questo modo il lettore ha la possibilità di esplorare il contenuto offerto e valutare la qualità prima di scegliere. Si tratta di una strategia vincente in quanto valorizza la capacità di giudizio e l’interesse stimolato. È stata infatti più o meno bene emulata dalla maggior parte delle grandi testate globali.  

Ma il vero punto di svolta, si potrebbe dire, è stato un rinnovamento dello spirito giornalistico che ha portato alla luce nuovi scandali, dopo anni di quiescienza, dimsostrando di saper svolgere, e anche bene il proprio ruolo nella società (Wikileaks, Snowman, MeToo…). Per quanto il numero di lettori e abbonati digitali sia in costante crescita, in particolare in America anche per l’effetto Trump, ancora non riescono a eguagliare i proventi che i giornali ricavavano dalla vendita delle copie cartacee. Resta un altro mito da sfatare. 

La pubblicità come contenuto

Sì, la pubblicità. No, non è un’invenzione recente. Esiste da sempre ed è una forma di comunicazione che ha spazio sui giornali da quanto esistono. Con l’aumentare della diffusione dei giornali, e poi di altri media come la televisione, si è accresciuta la quantità di pubblicità prodotta. Ma anche il prezzo. Fino all’inizio del nuovo millennio per un inserzionista una pagina del «New York Times» si aggirava sul prezzo di 100.000 dollari. Ed erano questi, non solo in America, i ricavi più cospicui dei giornali.  

internet come megafonoInternet ha rivoluzionato anche il modo in cui si faceva pubblicità. Se la ricerca etnografica ha permesso di creare diversi profili di fruitori mediatici, nella rete si può targettizzare ogni singolo utente. Attraverso i cookies il server può memorizzare le preferenze dell’utente e controllare in che modo i contenuti vengono fruiti. La differenza fondamentale tra un profilo e un target sta nel fatto che il primo è una sagoma, il secondo un bersaglio. Internet dà agli inserzionisti la possibilità di indirizzare il pubblico in modo più preciso ed efficace. Allo stesso tempo ha consentito pubblicità più creative, coinvolgenti e multimediali. 

Native advertising e publicity

Un tipo specifico di pubblicità, sorto insieme a internet, è la pubblicità nativa, progettata per assomigliare in tutto e per tutto ai contenuti della piattaforma in cui viene inserita. L’obiettivo è quello di essere meno invadente e, grazie ai cookies, presenta argomenti di interesse per l’utente. E, duro colpo per l’economia dell’informazione, ha costi molto più bassi rispetto alle forme tradizionali. 

Qualcosa di simile in realtà, anche se con differenze profonde, era già fatto attraverso il meccanismo della publicity. È un tentativo deliberato di gestire la percezione del pubblico rispetto a una persona o un prodotto fornendo informazioni mirate al pubblico. È una tecnica messa in atto sia dagli uffici di pubbliche relazioni dei singoli enti, ma anche, e si potrebbe dire “con dolo”, dai media tradizionali per sponsorizzare cantanti, piuttosto che aziende o personaggi, libri e via dicendo.

Infotainment e brand journalism

Una forma ibrida tra informazione, intrattenimento e sponsorizzazione è l’infotainment, che si è rivelato in grado di raggiungere una vasta gamma di pubblico anche molto differenziato, anche tramite internet, motivo per cui attira finanziatori. Risulta vincente, anche dal punto di vista giornalistico, per l’alto grado di coinvolgimento dettato dalle modalità espositive e non magari da un interesse pregresso per l’argomento. Si può declinare in diverse forme come video reportage, documentari, progetti di giornalismo immersivo, esperienze crossmediali, ma anche incontri e conferenze pensate in modo diverso. 

Quello che la pubblicità, e forse Internet in senso più ampio, ha insegnato al giornalismo negli ultimi vent’anni è l’importanza dell’attenzione agli interessi del fruitore. Shane Smith, fondatore di «Vice» e capofila di questo spirito innovatore, ha affermato diverse volte che ogni marchio dovrebbe concepirsi come azienda mediatica. Ed è esattamente il paesaggio che si sta costituendo ora. Questo si declina anche in una nuova forma di marketing che è il brand journalism. Storytelling, podcast e articoli informativi pubblicati da un’azienda su di sé, per presentarsi direttamente con contenuti al cliente senza nessun mediatore.

Cosa resta al giornalismo

In questa sostanziale compravendita di dati e informazioni sugli utenti per poter prendere la mira e centrare il bersaglio commerciale è fondamentale che lo spirito del giornalismo rimanga. La ricerca della verità – per quanto incompleta, putativa e provvisoria – e la sua diffusione, scomoda e non di tendenza, sono presupposti imprescindibili per diventare ed educare persone libere e consapevoli. In questo sta l’empatia del giornalismo, che non è emotiva e non è lusinghiera. Alla base sta il rispetto per il fatto a cui l’esposizione deve essere il più possibile aderente.

Grandi società, soci ingombranti

Dopo le dichiarazioni di principio, bisogna fare i conti con la realtà e quindi con il sistema economico. I giornali per essere liberi, idealmente, dovrebbero essere senza editori, quindi senza finanziatori privati. Risulta evidente come non possano essere enti statali, sulla cui trasparenza i giornalisti dovrebbero vigilare, a finanziare corposamente le testate. La situazione storica attuale è molto lontana da questo. Di fatto i mezzi di informazione sono aziende di comunicazione con un bilancio che, se non è in rosso, resiste nella maggior parte dei casi grazie a grandi investitori (si può citare il magnate messicano Carlos Slim per il «New York Times» e Jeff Bezos, patron di Amazon, per il «Washington Post»).

Questo genera un necessario sbilanciamento, l’oggettività (che è sempre un obiettivo a cui tendere e mai qualcosa di reale) deve fare i conti, in tutti i sensi, con le posizioni e gli interessi del “benefattore”. Il che, da un lato, si può armonizzare con una linea editoriale già condivisa dall’altro, come tutte le posizioni troppo schierate, lede la qualità dell’informazione che si vuole dare, rischiando di diventare megafoni ideologici e riducendo lo spirito critico.

Freedom of the press o free press?

Delle alternative, valide e sostenibili, ci sono. Di nuovo tra i grandi ritroviamo il quotidiano inglese «The Guardian» che è gestito dallo Scott Trust, fondazione senza scopo di lucro istituita ancora nel 1936 per garantire in perpetuo l’indipendenza dai finanziatori esterni. Un altro modello è quello di «ProPublica», primo giornale online a vincere un premio Pulitzer, che si finanzia vendendo inchieste e articoli di alta qualità a terzi e grazie alle donazioni dei lettori che investono sui progetti che reputano più rilevanti.giornali in metropolitana

Ovviamente la pubblicità resta fondamentale nell’economia generale di queste società, così come la produzione di newsletter, podcast, summer school ed eventi accessibili solo previo abbonamento o pagamento. Questo non intacca la qualità dell’informazione né la libertà del giornalista anche se, ovviamente, corre il rischio di cercare un avvicinamento ammiccante al lettore offrendogli ciò che potrebbe desiderare o ciò che è di tendenza.

É però un pericolo che va affrontato, conosciuto, discusso ed evitato se possibile, ma da cui non si può prescindere. Per il sistema attualmente vigente, il valore di un bene di consumo è determinabile economicamente e i prodotti giornalistici non sono esclusi da questa legge anche se trattano di qualcosa che è, e deve essere, un diritto fondamentale di ciascuno. Va garantito e tutelato e lo stesso vale per la professione del giornalista e perchè si possa svolgere al meglio e dunque in una condizione di libertà effettiva. E il bello è che gli unici a rendere questo davvero possibile siamo noi.

FONTI

CJR

IMS

Sociologia dei mass media di M. Sorice, Carocci, Roma, 2009

Mercanti di verità. La grande guerra dell’informazione di J. Abramson, Sellerio, Palermo, 2021

Manuale di giornalismo di A. Barbano, Laterza, Bari, 2012

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