“L’eclisse”, il capitolo finale della trilogia di Antonioni

Sessant’anni fa usciva nelle sale uno dei capolavori del cinema italiano, L’eclisse. Dopo la scomparsa dell’anti-diva Monica Vitti, in tutto in mondo sono state organizzate numerose rassegne cinematografiche per renderle omaggio. La sua carriera, dopo qualche prima esperienza nel teatro, decollò negli anni ’50. Ma a renderla una delle più affascinanti e versatili muse del cinema è stato sicuramente il regista, e suo grande amore, Michelangelo Antonioni.

La nascita di un’anti-diva

Il loro primo incontro avviene tra le calli di Venezia nel 1957 mentre Antonioni sta girando Il Grido.Hai una bella nuca, dovresti fare cinema” le dice. “Sempre di spalle?” risponde lei. Da qui, l’inizio di una collaborazione leggendaria e la conseguente nascita di un’iconografia che contraddistinguerà il regista per il resto della sua carriera. Tuttavia la Vitti non ha sempre interpretato ruoli comici, come succederà qualche anno più tardi con Monicelli. La tragicità che avvolge i suoi primi personaggi ha contribuito a evidenziarne le straordinarie doti attoriali e a renderla una delle attrici più apprezzate nel panorama cinematografico internazionale. Racconta il regista e amico Mario Monicelli:

Nonostante facesse dei film con Antonioni, interpretasse personaggi da film muto, misteriosi e d’altri tempi, nella vita di tutti i giorni era vivace, divertente e piena d’umorismo.

La collaborazione con Antonioni vanta alcuni dei film più famosi della storia del cinema, tra cui L’eclisse. Capace di interpretare e restituire sullo schermo i tormenti, le insicurezze e in generale di denunciare il ruolo della donna nella società contemporanea, in questo film la Vitti collabora con un giovanissimo Alain Delon.

Una trilogia esistenzialista

Il ronzio di un ventilatore scandisce gli interminabili primi minuti dell’ottavo lungometraggio del regista ferrarese premiato al 15esimo Festival di Cannes con il Premio Speciale della Giuria.

Fin da subito emerge il silenzio che col passare del tempo diventa sempre più soffocante. Non a caso, questo è il capitolo che conclude la trilogia della cosiddetta “incomunicabilità” dopo L’avventura (1960) e La notte (1961).

Un fugace e affaticato litigio introduce Vittoria (Monica Vitti), una giovane donna afflitta e senza prospettive per il futuro, mentre pone fine alla sua apatica relazione con Riccardo. L’incontro con Piero (Alain Delon), un elegante materialista ossessionato dal denaro, darà vita a un breve ma intenso contatto umano che la donna da sempre perseguiva.

Il lento declino dell’uomo moderno

“Sono stanca, avvilita, disgustata e sfasata”. In una delle sequenze iniziali Vittoria manifesta la sua insoddisfazione data dai pochi stimoli che le prospetta la vita. Una madre disattenta che non fa altro che recarsi in Borsa per rendere la sua pseudo-esistenza dignitosa, appesantisce il disagio della protagonista in costante ricerca di attenzioni.

Il regista la dipinge come una donna sfuggevole e che si amalgama col passare del tempo a una società fredda e senza futuro. Si assiste impotenti al suo inesorabile declino psico-fisico. L’unico interesse di queste figure, paragonabili ormai a degli automi che abitano una città allo stesso modo apatica sembra essere l’auto-gratificazione e la ricerca di qualcosa che li faccia sentire importanti e con uno scopo, seppur labile.

Il regista mette spesso in pratica un concetto che nel linguaggio cinematografico viene definito ocularizzazione interna primaria. L’immagine sullo schermo mostra un personaggio di spalle mentre guarda qualcosa che anche lo spettatore può vedere. Quest’ultimo, non potendo decifrare le espressioni dell’attore, non riesce mai del tutto a empatizzare con lui, diventando così una sorta di voyeur. Ogni quadro è scrupolosamente studiato e le pose statiche dei personaggi contribuiscono a creare delle linee rette all’interno della scena, confondendoli con le geometrie che la compongono.

Le disturbanti sequenze ambientate nella Banca sottolineano questa condizione: un caos di voci sovrapposte, incapaci di capire e di farsi capire, vengono mosse soltanto da un’alienante e spasmodica ricerca dei beni materiali, tra cui il denaro.

Alienazione e incomunicabilità

Il rumore diventa, col passare del tempo, una presenza ridondante nella narrazione, contrapponendosi al silenzio che caratterizzava la sequenza iniziale. Ma questi rumori (l’elicottero, l’annaffiatoio, i tacchi sull’asfalto, le automobili) sono davvero ciò che sembrano? L’intento del regista sembra essere quello di far percepire l’incomunicabilità creando un paesaggio sonoro che si va a sostituire ai personaggi stessi. Le anime che mette in scena incarnano l’alienazione che caratterizza l’umanità contemporanea. Il disagio dell’essere umano nella civiltà industriale lo fa sentire distante dalle proprie origini, innescando un processo di straniamento che si ripercuote in tutta la sua esistenza attraverso insicurezze e incapacità comunicative.

L’importanza dell’ambiente

Architetture austere riempiono le strade di una Roma irriconoscibile e ormai svuotata dai corpi di chi la abita. Restano solo ambienti vuoti e silenziosi che riflettono la condizione di questi corpi straziati da un esistenzialismo irreparabile e irrefrenabile.

La macchina da presa sembra seguire Vittoria e Piero, ricercando nei loro volti avviliti una scintilla che li faccia di nuovo tornare in vita. La stessa cosa succedeva 50 anni prima con la pittura metafisica di Giorgio De Chirico, che con le sue piazze desolate ha sicuramente ispirato le ambientazioni tipiche dell’immaginario filmico di Antonioni. Come lui, De Chirico riempiva gli spazi con degli inquietanti manichini, figure associabili agli automi della società novecentesca, i quali, come i fantocci di Antonioni, si trovano sospesi in un limbo tra il terreno e lo spirituale.

Simbolicamente l’eclisse ha come significato una sparizione, una scomparsa. La sequenza finale del film incarna questa definizione mostrandoci i luoghi dapprima riempiti dai due amanti, ora desolati, svuotati dalla loro presenza, seppur solamente fisica. L’emblematica inquadratura del lampione, che sembra brillare di una luce propria accecante, diventa metafora dell’eclisse stessa. Questa costante ricerca di sé stessi termina con l’annullamento totale dell’uomo, così come succede quando il Sole viene nascosto dalla Luna e viceversa, scomparendo alla nostra vista dietro la sua ombra.

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