Ribellione e anarchia ne “La locomotiva” di Guccini

Per affrontare il tema della ribellione rispolveriamo il significato di una canzone simbolo della lotta anarchica, La Locomotiva di Francesco Guccini, pubblicata nell’album Radici del 1972. Timbro basso e inconfondibile, erre moscia, fisico imponente e immancabile barbone: Guccini è uno dei massimi esponenti italiani di quel genere musicale, in cui il testo ricco e elaborato – quanto una poesia – è la colonna portante dell’opera, la musica dei cantautori. Tredici strofe da cantare con il pugno alzato al termine di ogni concerto prima che Guccini si ritirasse dalle scene, anche se tale usanza si interruppe per un breve periodo durante il terrorismo delle Brigate Rosse.

La canzone narra un fatto realmente accaduto, anche se Guccini si è concesso qualche licenza poetica sin dalla prima strofa: “Non so che viso avesse / e neppure come si chiamava”. I dati anagrafici del protagonista sono invece ben noti, si trattava infatti del fuochista Pietro Rigosi, 28 anni, sposato e padre di due bambine di tre anni e dieci mesi. Il testo sostiene che i fatti si svolsero nei “primi anni del secolo” ma, considerando che la canzone è stata scritta nel Novecento, ciò non è possibile, perché i fatti si verificarono poco prima delle cinque del pomeriggio del 20 luglio 1893.

Guccini tuttavia descrive un’epoca storica che sembra essere la fine dell’Ottocento, infatti i suoi versi accennano al positivismo e alla locomotiva “simbolo di progresso” che “l’uomo domina con il pensiero e con la mano.” Si tratta di un secolo di profonda ingiustizia sociale nel settore ferroviario, da un lato perché i ricchi viaggiavano in carrozze lussuose in prima classe mentre ai poveri erano dedicati ambienti scomodi e fatiscenti, dall’altro le condizioni in cui lavoravano gli operai ferroviari precarie e dure.

Il protagonista si ribellò a tutto ciò in modo anarchico, si impossessò, infatti, di una locomotiva sganciata da un treno merci presso la stazione di Poggio Renatico a si diresse all’allora incredibile velocità di 50 km/h verso la stazione di Bologna. Guccini non cita nomi di luoghi e velocità per creare un’atmosfera mitica e fiabesca, fatta eccezione per una delle città in cui ha vissuto: la sopracitata Bologna. La locomotiva fu deviata su un binario morto, dove si schiantò contro sei carri merci in corsa non nominati nella canzone. La frase “lo raccolsero che ancora respirava” è l’unica informazione che abbiamo sulla sorte dell’anarchico Rigosi nel testo del cantautore, in verità sappiamo che gli venne amputata una gamba e che rimase sfigurato in viso. Dopo due mesi venne dimesso dall’ospedale e esonerato dal lavoro per ovvi motivi di salute.

L’eroe di Guccini sembra semplicemente infuocato da ideali di giustizia sociale e lotta proletaria, nella realtà i fatti sono più complessi. Non conosciamo il movente del gesto del fuochista romagnolo, sappiamo solo che era profondamente anarchico e che dopo il ricovero in ospedale affermò “Che importa morire? Meglio morire che essere legato!” e ciò bastò a convincere l’opinione pubblica che si trattò di un atto politico. I quotidiani dell’epoca invece dichiararono che l’uomo era un semplice pazzo e ciò condannò l’episodio di cronaca all’oblio, sino a quando Guccini resuscitò dalla damnatio memoriae l’evento mentre consultava dei documenti relativi ad alcuni operai dell’Ottocento; colpito dalla testimonianza, il cantautore modenese decise di trasformare Rigosi in un simbolo della lotta di classe.

È notevole pensare che un testo così complesso sia stato scritto in una ventina di minuti; nel 2017 è stata inserita al 71° posto nella classifica delle più belle 250 canzoni del nostro paese.

Indipendentemente dalle opinioni politiche di ciascuno, la canzone ci induce a riflettere sulla grave disparità sociale del passato e alla disperazione che può provocare ma, soprattutto, su fino a che punto siamo disposti a spingerci e sia giusto spingersi nella lotta politica.


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