Gabriele Mainetti: il Peter Pan adulto

Nell’oscurità della notte un uomo di mezza età osserva dalla cima del Colosseo la città silenziosa che si staglia davanti a lui; poi, indossata una maschera cucita a mano, spicca un salto e si immerge nel buio, pronto a difendere i propri concittadini dai brutti ceffi che si annidano nelle strade e nei quartieri più malfamati. Sei anni dopo, o forse circa settant’anni prima, un gruppo di quattro bizzarri artisti circensi cammina spensierato attraverso i colli della stessa città; le loro silhouette si stagliano contro i colori caldi di un tramonto, tra un bacio e un abbraccio, lasciandosi alle spalle le ceneri di una distruzione passata.

Dalla fine…

Iniziamo dalla fine, anzi dai lieto fine dei due lungometraggi Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) e Freaks Out (2021). Da quelle immagini che, osservate in filigrana, possono forse iniziare a suggerire chi sia Gabriele Mainetti, il Peter Pan adulto perennemente in volo per la capitale che non c’è. Un ossimoro? Forse. Dopotutto la forza del regista capitolino classe 1976 andrebbe ricercata al cuore delle sue profonde contraddizioni; o ancora meglio all’interno dell’intimo conflitto tra anime differenti, tra i volti complementari del bambino e dell’adulto.

Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out. Due favole sofferenti. Equilibrato connubio fra spensieratezza infantile e maturo cinismo. Un contrasto insito non solo nella dimensione progettuale dei due lungometraggi, divisa tra l’ambizione e la frenesia quasi fanciullesca di realizzare qualcosa di innovativo ed entusiasmante e le necessarie riflessioni dovuti agli scogli di natura produttiva (pensiamo ai circa 6 anni di gestazione che hanno portato al rilascio di Freaks Out). Bensì un contrasto evidente soprattutto a livello narrativo.

Ossimoro

Sogni e speranze si concretizzano negli happy ending e nelle citazioni per nulla velate al mondo supereroistico mainstream, affidate alle  voci di Luca Marinelli ( T’ha mozzicato un ragno, un pipistrello, sei cascato da n’artro pianeta?) e di Franz Rogowsky (“Finalmente a casa. I fantastici quattro”). Allo stesso modo cinismo e sofferenza si dipanano lungo le trame dei due film trovando il modo di declinarsi in una triplice via. C’è il dolore degli eroi (o antieroi), dei cosiddetti buoni; il dolore di Enzo, ladruncolo di periferia in un mondo di solitudine (“io non so amico de nessuno”) e quello di Matilde, costretta alla privazione del contatto fisico e dell’affetto che ne deriva (“Quante volte ve lo devo dire che non mi dovete toccare?”).

C’è il dolore degli antagonisti, umanizzati e fragili nella loro disperazione esistenziale; lo Zingaro emarginato nel sudiciume della propria mediocrità, e Franz, vero quinto freak, con un dito in più e la possibilità di vedere il futuro, ma imprigionato nel ruolo di Cassandra del Terzo Reich. E, infine, ma non di sfondo, c’è il dolore di Roma; una Roma martoriata da guerra, bombe, attentati e crimine; una città abbandonata a se stessa, destinata quasi a crollare sotto il peso della disillusione di alcuni quartieri. Ma anche una “Roma che non c’è” perché modellata su elementi reali o verosimili, ma pregna al contempo di una magia e di una carica sovrannaturale che risiedono solo nell’immaginazione del suo “architetto” e nel suo desiderio di darle ancora una possibilità di salvezza.

Una vita

Gabriele Mainetti è il bambino e l’uomo. È la disillusione tipica dell’età adulta e lo sguardo sognante di chi è convinto ci sia ancora una chance. E non c’è da stupirsi che il cinema del regista riveli tutte le facce della sua essenza frammentata. Lui artista a tutto tondo, versatile e polimorfico, formatosi a Roma Tre e divenuto prima attore per il grande schermo (Il cielo in una stanza, Un altr’anno e poi cresco) e per il piccolo (con fiction quali Stiamo bene insieme o Un medico in famiglia); poi regista, produttore (nel 2011 fonda la Goon Films) e perfino compositore (Le colonne sonore di Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out portano anche la sua firma).

L’uomo e il bambino di un’esistenza divisa a metà. Tra il Mainetti che studia alla Tisch School of Arts di New York e il piccolo Gabriele che forse ne approfitta per fare visita agli eroi d’oltreoceano. Magari a Spider-Man, per riproporlo nel non tanto amichevole Jeeg Robot di quartiere di Claudio Santamaria, o al Baxter Building in quel di Manhattan.

Un cineasta dal “multiforme ingegno”, novello Ulisse nel mare magnum della settima arte italiana, finora mai frenatosi di fronte alle possibilità di un folle volo autoriale. Che sia la volontà di unire America e Italia ridisegnando il paradigma supereroistico in salsa casereccia (“noi abbiamo fatto di tutto perché fosse il più italiano possibile”) o la necessità di pagare di tasca propria il finanziamento di una grande ambizione (“…fu chiaro in quel momento come [Freaks Out] sarebbe costato più di quanto doveva all’inizio. A quel punto ho iniziato a mettere i soldi con la mia società…”).

…al principio

In Gabriele Mainetti c’è il coraggio di chi osa. Un coraggio che, ancora una volta, affonda probabilmente le sue radici in quegli idoli della cultura giapponese che molto hanno influenzato l’infanzia e poi l’attività artistica del regista. Quegli anime che costituiscono una parte fondamentale del percorso del cineasta, ovviamente confluito nel personaggio di Jeeg Robot, ma iniziato diversi anni prima; con quei cortometraggi che, specialmente tra il 2008 e il 2012, hanno segnato una tappa fondamentale per la costruzione del successo di Mainetti.

Dalla fine al principio. Dal momentaneo apice della sua carriera al momento in cui tutto ha iniziato a prendere il volo. Parliamo di Basette (omaggio del 2008 a Lupin III) e della dimensione onirica che tra lacrime e sorrisi funge da ponte intergenerazionale. E parliamo di Tiger Boy (il riferimento a Tigerman è evidente) dove un elemento come la maschera diviene simbolo della finta benevolenza di un uomo e insieme rifugio di un eroe bambino tormentato. Testimoni di una poetica autoriale che non è cambiata nel tempo, ma semmai si è evoluta, è cresciuta insieme con il regista, senza mai tradire se stessa.

Chi è dunque Gabriele Mainetti? Chi è quel Peter Pan adulto che si aggira per le strade della Roma che non c’è?

Forse è il bambino che corre sul marciapiede dopo essersi tolto la maschera di tigre e aver sconfitto il proprio nemico. O forse è l’uomo che, accasciatosi a terra morente, trova un ultimo momento per sorridere e pronunciare il nome dell’eroe della sua infanzia.

“Cartone animato preferito…Lupin III. Per Forza”

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