Le “piccole virtù” di Cesare: Natalia Ginzburg ricorda Pavese.

La città che era cara al nostro amico è sempre la stessa.

E questo ci rassicura. Qualche cambiamento qua e là, la sensazione di un inevitabile progresso che ci passa accanto e che ci fa sentire indietro, passati, già dimenticati; ma nessuna differenza sostanziale, nessuna svolta che impedisca di chiudere gli occhi, tornare indietro e rivivere tutto. E anche la malinconia, con tutte le sue complicazioni, rimane lì: impassibile, affascinante, impalpabile, tremendamente magnetica.

La nostra città rassomiglia, noi adesso ce ne rendiamo conto, all’amico che abbiamo perduto e che l’aveva cara;

Ecco la differenza sostanziale, la svolta che impedisce di tornare indietro e immaginare tutto daccapo, come se non fosse cambiato nulla. La morte. In effetti, avremmo dovuto aspettarcelo. Le prime righe erano troppo grigie, troppo cariche; e noi, abituali fruitori di letteratura, avremmo dovuto presagire la Sua presenza. D’altronde, per scaricare pagine del genere, per dargli un senso, niente sarebbe stato adatto e all’altezza quanto la morte. L’autrice, però, non ha ritenuto giusto buttarla lì come un evento casuale, fortuito; un accidente, una deviazione della vita; ci ha fatto entrare piano, senza accelerare i tempi, ha addolcito le sue parole e le ha edulcorate, si è mossa con cautela, senza movimenti bruschi. Voleva farci capire che questa, di morte, non è come le altre. Non è un accidente né una deviazione; non è casuale né un evento sfortunato; è premeditata, voluta, agognata, desiderata ardentemente. Questa è la morte di Cesare Pavese. Cesare Pavese testardo, in continuo movimento ma poi, alla fine, sempre uguale. Qualche volta triste, quando si rintana nel bavero del cappotto, nella sua sciarpa chiara, quando si ripara dalla pioggia per stare ancora cinque minuti ad aspettare il suo amore ballerina.

Cesare circondato dalla sua fanciullesca malinconia, percepita da tutti, compresa realmente da nessuno.

Noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni.

Una tristezza giustificata, sacrosanta, normale. Una tristezza tutta infantile, non ancora maturata, viva, fatta di carne. La tristezza che a un certo punto dovrebbe, se non trasformarsi, quantomeno essere metabolizzata, accettata: accade a tutti. Ma a Pavese no; Pavese non riuscirà mai a liberarsene e anzi quella malinconia, musa indiscussa dei suoi capolavori, diventerà la sua maledizione. Lo costringerà a pensare in continuazione, a costruirsi un groviglio di princìpi che gli terranno la mente occupata e non gli permetteranno di confrontarsi con la realtà, con la vita quotidiana. È questo che gli manca, questo il passo che non è stato in grado di compiere per essere in pace: l’attuazione della realtà più semplice. Un caso di ipercorrettismo, un’innocente barriera costruita per evitare di incorrere nella banalità e diventata, nel corso degli anni, un muro sempre più alto e possente che gli impedisce di godere di ciò che la vita offre.

È morto d’estate. Torino con lui? No, la nostra città è rimasta uguale: lo stesso caldo, le stesse persone, lo stesso cielo, la polvere. I tavolini del bar con le tazzine sporche di caffè, la stazione. Gli stessi amici. Tutto uguale. Pavese è morto d’estate e si è portato con sé la propria malinconia, la propria tristezza, non ha permesso a nessuno di comprenderla fino in fondo, di vederla, di viverla, di sentirla. E di questo un po’ gliene siamo grati; d’altra parte, però, ci ha lasciato un senso di amaro in bocca; l’impressione di essere stati lasciati ancora una volta fuori, di leggere un libro e non essere in grado di riconoscere realmente l’autore, capire chi ci sia dietro quelle pagine. Pavese inizia a scavare a fondo, poi fa marcia indietro. E così, come le sue opere, ha trattato la sua vita: è andato avanti fino a quando poteva, poi si è fermato. E forse, da qualche parte, qualcuno si è fermato con lui.

Come un mare notturno è quest’ombra vaga

Di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora

E ogni sera ritorna. Le voci morte

Assomigliano al frangersi di quel mare.



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