Agostino, un racconto di Alberto Moravia.

Agostino è solo un bambino quando si accorge di essere attratto da sua madre. Non ci sconvolge, dopotutto è un tòpos ricorrente nella letteratura, nella psicoanalisi, in generale in tutto ciò che abbia a che vedere con l’anima; un banalissimo complesso di Edipo, notevolmente aggravato, in questo caso, da una madre attraente ma disattenta, da un padre assente, da un corteggiatore affascinante. Tutti aggettivi in –nte per i nostri personaggi, tutti participi presenti che presuppongono un’idea di dinamismo che al protagonista, però, sembra essere preclusa: Agostino, dall’inizio alla fine del racconto, è sempre lo stesso.  

Occorre fare qualche precisazione, per evitare di essere inesatti. Agostino e la madre appartengono all’alta borghesia, vengono da una famiglia ricca e sono in vacanza in Calabria. Il padre di Agostino è morto, non sappiamo come né perché: non ci interessa, ciò che importa è che non compaia mai. E Agostino, il piccolo, ingenuo, forse viziato, sicuramente inconsapevole Agostino, comincia a essere affascinato dalla madre: dalle sue gambe, dai suoi seni, dalla sua schiena, dal suo modo di muoversi e di fumare, dai suoi vestiti. Moravia non tace nulla, quella che descrive è una vera e propria attrazione erotica, e se il lettore non fosse troppo impegnato a storcere –giustamente- il naso per il mittente di questo erotismo, sicuramente si ritroverebbe ad apprezzare la prosa con cui l’autore ne parla.

Abbiamo parlato di staticità. Ebbene, Agostino non si muove mai. Eppure il movimento è lo scopo che si prefigge sin dalle primissime pagine; è molto –troppo- evidente la completa lucidità del protagonista nei confronti di ciò che è giusto e ciò che non lo è, la totale mancanza di irrazionalità di fronte all’attrazione sessuale che prova per la madre. Troppo perché Agostino è talmente lucido da non essere credibile, talmente razionale da sembrare, in alcuni momenti, finto. Cerca in tutti i modi di liberarsi da questa perversione, si sorprende a spiare la madre e fa di tutto per andarsene, conosce un gruppo di ragazzi del posto e tenta di essere incluso tra di loro, di conoscere la vita, altre donne, di dimenticarsi sua madre. Per questo è finto. Agostino è un bambino e, a dir tutta la verità, è anche un po’ tonto; almeno, così appare di fronte a quel gruppo di ragazzi di strada, così preparati alla vita. Agostino è ingenuo, non conosce la vita, non sa nulla. È cresciuto in un ambiente ovattato, non riesce ad avere una visione d’insieme, ecco. Il che rientra nell’ormai conosciuta e ampiamente trattata critica che Moravia, sistematicamente, fa della borghesia: un rapporto di amore-odio, la vittima della sua prosa ma anche l’unica vera protagonista, sempre. Ecco che quindi non ci sorprende che Agostino sia un po’ tonto: l’autore se ne serve per descrivere un mondo di ideali tonti, una classe sociale tonta.

Ciò che ci lascia perplessi è invece la completa lucidità del protagonista: insomma, o è tonto o non lo è. Non può esserlo quando fa comodo all’autore e poi diventare razionale, lucido, perfettamente conscio della situazione. E, soprattutto, non può farlo a distanza di due pagine. È qui che la citata staticità, però, corre in soccorso dell’autore: Agostino, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, non si muove. Il risultato delle sue tensioni, dei suoi tentativi di movimento, è vano: il divario che c’è tra lui e gli altri ragazzi di strada rimane identico, lui stesso rimane identico, tutto ciò che si prefigge, tutti i tentativi di non pensare alla madre, di conoscere realmente la vita, di uscire da una situazione ovattata che lo abbrutisce e lo rende passivo, sono inutili: nelle ultime pagine, il protagonista sarà identico all’inizio. Gli stessi pensieri, gli stessi atteggiamenti, le stesse emozioni. Nessuna differenza. È vero che ci avrà provato, e quindi, forse, l’unico elemento realmente diverso sarà che la volontà di cambiare verrà sostituita da una sistematica e, ormai consapevole, delusione. Per il resto, tutto uguale. Per fortuna, aggiungiamo noi. Perché se l’assurda, inverosimile, poco credibile lucidità di Agostino fosse stata protagonista di un cambiamento reale, a rimanere delusi saremmo stati noi. E invece quella maturità stridente, quei ragionamenti fuori contesto, vengono reinseriti nel testo, ri-contestualizzati e, in qualche modo, anche edulcorati dall’autore, che, forse, a un certo punto, si rende conto di aver completamente tolto ad Agostino il ruolo di protagonista, di averlo talmente tanto sacrificato di fronte alla sua vera musa, la classe borghese in tutte le sue sfaccettature, da aver dimenticato le fattezze umane, reali, verosimili, e aver creato un burattino utile solo a sostenere la tesi. Ma i burattini non si muovono mai realmente, e Moravia lo sa: rimangono di legno, costretti a essere animati da altre persone. Per questo nelle ultime pagine, prima di scrivere un lieto fine e dar retta alla sua musa, l’autore concede un po’ di dignità al suo personaggio e lo lascia lì, intrappolato nella sua lucida ingenuità.



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