Editoria: storia di una crisi economica e morale

Il mondo dell’editoria versa in una crisi nera e profonda come il letto di un pozzo, sotto tutti i punti di vista; per quanto riguarda le vendite, per i contenuti che vengono offerti al grande pubblico e, non ultimo, per chi tenta disperatamente di entrarvi, sia con la veste dello scrittore sia con quella dell’editore.
Ma, per affrontare l’aspra situazione, è bene procedere con ordine.

Dati della Associazione Italiana Editori (AIE) alla mano, negli ultimi tre anni il fatturato delle case editrici è sceso dell’esorbitante cifra dell’8.1%.
Di certo i lettori di e-book hanno sottratto all’editoria tradizionale un’ampia fetta di mercato, considerando che oltre i settant’anni dalla morte dell’autore le opere divengono di dominio pubblico, ormai è possibile reperire in formato elettronico tutti i grandi classici senza spendere un soldo.
Eppure, questo è soltanto uno dei fattori che contribuisce a offuscare la situazione, per di più il meno incisivo. La crisi economica che negli ultimi anni sta opprimendo il nostro paese è senz’altro il capro espiatorio più semplice da additare – e non senza buona ragione. D’altronde, si sa che quando le cose vanno male le prime fronde a essere tagliate sono quelle inutili, non importa quanto esse possano essere belle, poiché a valere sono soltanto i rami che rendono abbastanza frutti.

Ma la crisi che investe l’editoria è soprattutto una crisi morale. Basta entrare in qualsiasi libreria per rendersene conto. Quando varco le soglie della mia amata Feltrinelli in Piazza Duomo e mi trovo innanzi un’alta pila di 50 sfumature di grigio un incontenibile moto di disgusto mi sale dal profondo, disgusto acuito dalla consapevolezza che, se un editore odierno avesse dovuto scegliere tra Guerra e Pace di Tolstoj e il poc’anzi citato “libro” della James, avrebbe senz’altro scelto il secondo date le scarse prospettive di vendita del primo.

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Infine, il tasto dolente per chi, come me, si aggrappa disperatamente alla zattera dei propri scritti, tentando di non annegare nell’oceano di pagine che quotidianamente vengono pubblicate e/o proposte a tutte le case editrici, grandi o piccole che siano. Poiché questa è, in breve, la situazione di chi ha deciso di portare sulle spalle il pesante fardello della scrittura.
Per quanto riguarda le grandi case editrici, esse puntano soltanto sui grandi nomi o, per assurdo, preferiscono lanciare aborti come i Mondadori flipback piuttosto che nuovi scrittori.
Le piccole/medie case editrici, unica nostra ancora di salvezza, sono perennemente sull’orlo del precipizio e, non appena si alza il vento della crisi… Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie.

In secondo luogo, si dice che in Italia ci siano più scrittori che lettori. Se una casa editrice straniera riceve tre manoscritti inediti a settimana, una italiana ne riceve tre al giorno.
La situazione sembra paradossale ed è alquanto difficile trovare una spiegazione. L’antropologo francese René Girard direbbe che l’alta fruizione di libri dal valore letterario decisamente discutibile e dalle esorbitanti cifre vendute ha causato un “desiderio mimetico di scrittura“, per il quale chi scrive non lo fa per ispirazione, ma per imitare qualcuno che ha scritto qualcosa di successo.

Per concludere, nonostante tutta la retorica che si possa fare su questo discorso, è vero: con la cultura non si mangia. Almeno, non in Italia. A banchettare sono soltanto le persone che sono disposte a vendersi, che confezionano un prodotto commerciale da milioni di copie dalla qualità infima, ma questa non può essere di certo definita cultura.
Chi sceglie di fare lo scrittore, quindi – benché aborra etichettare l’essere scrittori come un mestiere – o, semplicemente, di lavorare nel mondo dell’editoria, deve prepararsi ad affrontare una salita molto ripida, impossibile da scalare se manca la passione e la forza di volontà.


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