Poesia o prosa? ovvero Il poemetto nel Novecento

 

Una ragazza di nome Carla alle prese con gli sbandamenti della prima età adulta, una città opprimente, un abuso, una decisione amara e sofferta che la catapulta direttamente in una nuova vita. La trama di un romanzo di Moravia? No, un poemetto di Pagliarani.

Il poemetto è un genere dalla lunga vita e dalla grande diffusione, in Italia e nel Novecento. Il secolo ai suoi esordi pare non poterne proprio fare a meno: dai Nuovi poemetti di Pascoli, con l’epopea contadina di Rigo e Rosa (che mi ha sempre trasmesso, almeno idealmente, la lentezza e l’afa della campagna nelle ore estive) al marinettiano Zang tumb tumb, che tenta di riportarci, anche visivamente, nell’atmosfera bellica della battaglia di Adrianopoli. Fra i due estremi senza dubbio è Guido Gozzano, con il suo amore per le chincaglierie sbeccate e le tende tarmate, la narratività piana e semplice, la descrizione di sentimenti aperti e quotidiani (“azzurri d’un azzurro di stoviglia”). Contemporaneamente fuori Italia il genere acquista nuova nobiltà, e cerca forse di portare nel poemetto quella “verticalità” di cui Montale parla nel video qui sopra. Pensiamo all’opera di Eliot, in cui all’intensa spiritualità della Waste Land si coniuga la più piana semplicità dei Four Quartets, dove eppure il tema più prosastico viene continuamente punteggiato da riferimenti metafisici:

“So here I am, in the middle way, having had twenty years—
Twenty years largely wasted, the years of l’entre deux guerres
Trying to learn to use words, and every attempt
Is a wholly new start, and a different kind of failure
Because one has only learnt to get the better of words
For the thing one no longer has to say, or the way in which
One is no longer disposed to say it.” (da East Cocker, IV)

Questa è forse la porta d’accesso al poemetto tipico della seconda metà del Novecento. Se il caposaldo della prima metà del secolo era stata la narratività, la tendenza a raccontare “storie”, la guerra mondiale ha radicalmente cambiato il modo di pensare, specie in Italia, e specie quello degli intellettuali e dei poeti. Il clima che viene ad instaurarsi nel secondo dopoguerra vede un’intensa partecipazione dell’intellighenzia italiana al dibattito sulla ricostruzione, anche civile e morale, del paese. Contemporaneamente la poesia si trova ad affrontare le nuove avanguardie, che sconvolgono l’imperante ermetismo degli anni ’40, propugnando un rapporto di inventiva e di sconvolgimento con la parola. La prosa si immette fortemente nella poesia, sfruttando e piegando la liberazione del verso primonovecentesca. Il poemetto rinasce come forma mista di prosa e poesia, eppure non rinuncia mai alla sua componente lirica, si fa più filosofico-meditativo: Laborynthus di Sanguineti, Pasolini con Le ceneri di Gramsci, il Bertolucci de La camera da letto, Pagliarani e la sua Ragazza Carla, Sereni con Il posto di vacanza e Una visita in fabbrica.

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Sereni e Pagliarani a mio parere sono due esempi perfetti di come la poesia e la prosa “si uniscano nella vita di una persona”. Sereni nella sua visita alla Pirelli, dove lavorò per diversi anni come ufficio stampa, pur stralunato all’incontro con un mondo operaio che non gli appartiene, non può fare a meno di pensare in termini foscoliani alle vite degli individui (“Dove più dice i suoi anni la fabbrica,/di vite trascorse qui la brezza/è loquace per te?”), al suo amore che lo aspetta alla fine della fabbrica, al modo con cui resistenza e pazienza compongono la nostra “parte migliore”. Ne Un posto di vacanza la poesia costituisce proprio l’occasione da cui nasce il poemetto, costituito da un incessante articolarsi a spirale attorno al problema dell’ineffabilità della poesia, dell’inadeguatezza della parola e dell’incessante e amara meraviglia (color amaranto, per dir così) del reale.

“(Che fosse in ansia per Angeliche fuggenti
o per tornanti Elene? Si potrebbe supporlo.
Ma non si creda – benché questo assomigli
a un gran male d’amore e se ne accresca a volte –
non si badi all’implorante dalle rive,
sa essere buon simulatore.
Di fatto si stremava su un colore
o piuttosto sul nome del colore da distendere
sull’omissione, il
mancamento, il vuoto:
l’amaranto,
luce di stelle spente che nel raggiungerci ci infuoca
o quale si riverbera frangendosi su un viso
infine ravvisato, mentre la barca vira…)” (da Un posto di vacanza, IV)

E Pagliarani? Ci racconta una vicenda che potrebbe essere di tutti i giorni, intensamente “prosastica” come abbiamo visto, eppure non rinuncia mai all’elemento ragionante, universale, metafisico:

“E questo cielo contemporaneo
in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto
questo cielo colore di lamiera

sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa
sopra tutti i tranvieri ai capolinea

non prolunga all’infinito
i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli
coperti di lamiera?

È nostro questo cielo d’acciaio che non finge
Eden e non concede smarrimenti,
è nostro ed è morale il cielo
che non promette scampo dalla terra,
proprio perché sulla terra non c’è
scampo da noi nella vita.” (da La ragazza Carla, II)

Ma non è tutto. Non basta aspirare all’universale o introdurre inserti o temi tradizionalmente considerati “poetici” in un tessuto narrativo prosastico o che vuole semplicemente raccontare una storia. Quello che distingue questi maestri e fa di questi dei veri capolavori della poesia è lo straordinario uso della parola, dei tradizionali strumenti poetici: la rima, il verso, le figure di ritmo e di suono, che sono sempre sapientemente mescolati nell’uso a versi più lunghi e volutamente prosastici. È la perfetta scelta di parole a veicolare un livello ulteriore, “verticale”, oltre a quello orizzontale della storia, e a restare profondamente conficcato dentro noi.

Samuela Serri

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