“Ma che altro si può fare nella vita, se non pensare e combattere?” dice Cecilia Mangini in un’intervista a <<Repubblica>>, pensando alla propria esperienza nel cinema e nella politica. Lei, prima donna a realizzare documentari artistici nell’Italia del secondo dopoguerra, ha subito censura e boicottaggio per i propri film: scandalosi, immorali, avanguardistici.
L’incontro con Pasolini
L’esperienza del Neorealismo
Gli anni sono quelli del pieno Neorealismo: Mangini, trentenne, frequenta Luigi di Gianni, Zavattini, Vittorio de Sica, Lino del Fra, Vancini. È una squadra fertile che produce film per aiutare l’Italia ad analizzare l’esperienza della guerra da cui è appena uscita e a capire in che direzione muovere i primi passi per la ricostruzione. Mangini dice che il Neorealismo l’ha salvata: i film di Rosselini, De Sica ed Elio Petri hanno aperto la strada a un cinema consapevole, con lo scopo primario di educare a pensare. In quest’ottica si collocano anche i suoi successivi lavori. Gli anni Sessanta sono per Mangini molto produttivi: gira documentari sulla vita nelle periferie degradate (La canta delle marane, Stendalì), sulla storia del fascismo (All’arme, siam fascisti!) e su quella del comunismo sovietico (La statua di Stalin), inoltre si dedica alla figura della donna che sta emergendo proprio in quegli anni.
Cosa vuol dire essere una donna negli anni Sessanta?
Essere donne esce nel 1965 ed è subito boicottato da produttori e registi della Commissione ministeriale per la programmazione cinematografica: l’Italia lo bolla come “offesa alla moralità” ma all’estero il documentario ottiene grande successo. Obiettivo del film è illustrare lo scarto tra la condizione lavorativa e familiare in cui la donna viveva negli anni Sessanta e l’immagine sensuale e zuccherosa promulgata dall’industria culturale. Mangini ne parla così:
“La scoperta è stato l’incontro con le donne ‘agite’ dalla fabbrica, dal lavoro contadino, dalla famiglia, dal rapporto con la loro condizione negata. Dovunque, al Sud e al Nord incontro donne convinte che l’indipendenza economica da conquistare le salverà […] Scopro che le donne sono inquiete, spesso apertamente insoddisfatte del peso esistenziale che le limita, e sottotraccia oscuramente motivate a capire che cosa non funziona. Ancora manca la consapevolezza del sistema penalizzante nella sua interezza, nelle sue cause, nelle sue motivazioni. Le donne sono inconsciamente in gestazione del loro essere interamente donne”.
L’impatto del documentario è anche fortemente visivo: le immagini da rotocalco sono sgargianti, mentre la realtà delle donne in fabbrica e in famiglia è mostrata in bianco e nero. Nessun piagnisteo, solo una lucida denuncia: la sua telecamera arriva nelle rughe e nei calli di queste donne, nei loro corpi sformati dal duro lavoro e nelle loro menti voraci di più istruzione. Si conclude con riprese di scioperi femminili come a dire che le cose si stanno mettendo in circolo, e che presto arriveranno i risultati.