Le frontiere attraverso le fotografie di Steve McCurry

Steve McCurry è uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, punto di riferimento per un largo pubblico, che nelle sue fotografie mostra un particolare modo di guardare il nostro tempo. Cattura l’essenza dell’umanità, la sua storia, le sue sofferenze e in qualche caso anche la sua gioia.

Ragazza afgana, Steve McCurry, 1984

Nato a Philadelphia nel 1950, McCurry si laureò nel 1974 presso l’Università delle Arti e Architettura del Pennsylvania State University. Dopo aver lavorato in un giornale come fotografo per due anni, partì per l’India come freelance. La sua carriera subì una svolta quando documentò la guerra russo-afghana, in particolare la zona sul confine tra Afghanistan e Pakistan sotto il controllo dai ribelli. Il servizio vinse la Robert Capa Gold Medal nel 1980 per il miglior reportage fotografico dall’estero, premio dedicato ai migliori reportage fotografici dall’estero che abbiano richiesto eccezionale coraggio ed intraprendenza. McCurry in seguito continuò ad avventurarsi in molte zone di conflitto, tra cui Beirut, Cambogia, Filippine, in Kuwait durante la Guerra del Golfo, nell’ex Jugoslavia e in Afghanistan. Steve McCurry concentrò la maggior parte delle proprie opere sulle conseguenze della guerra sulla popolazione, orientandosi soprattutto su ritratti di quelli che sono le principali vittime dei conflitti, ovvero donne e bambini, mostrando i volti e le anime di quelli che lui stesso definisce “i soggetti più deboli dell’umanità”.

Found (Sharbat Gula), Steve McCurry, 2002 

La più famosa fotografia di McCurry è sicuramente il ritratto noto come Ragazza afgana, scattata nel 1984 in un campo profughi vicino a Peshawar, in Pakistan. L’immagine è nota come “la fotografia più riconosciuta” nella storia della rivista National Geographic; a McCurry fu richiesto infatti dalla rivista americana di scattare un reportage sui campi profughi sul confine afgano-pakistano. Qui poté documentare la sofferenza della popolazione afgana per l’invasione sovietica, ma anche come i rifugiati continuavano nonostante tutto a condurre le proprie vite come se niente fosse cambiato. Ed è qui che in una tenda adibita a scuola per i bambini del campo che McCurry notò una bambina dall’espressione intensa, dallo sguardo penetrante caratterizzato da particolari occhi cerulei. La foto è un primo piano di questa bambina di soli dodici anni, rimasta anonima per molti anni, avvolta da uno scialle rosso sopra a una cascata di capelli bruni. A catturare l’attenzione dell’osservatore è proprio il magnetismo del volto della ragazzina, i suoi occhi chiari esprimono un insieme di emozioni che ci possono aiutare a capire la sua storia; è il simbolo di una popolazione dilaniata dalla guerra, dalla paura e dalla sofferenza, ciò nonostante sotto tutte questa tristezza mostra grandissima forza, voglia di riscatto, oltre che una certa vulnerabilità e ambiguità. Questa ambiguità nello sguardo sembra far pulsare la foto, quasi possa prendere vita, e cattura la mente di chi la osserva, impedendogli di dimenticarla; questa energia porterà lo stesso McCurry a compiere un nuovo viaggio per ritrovare la ragazzina della foto dopo diciassette anni. Nel 2002 riuscì a ritrovarla e a scoprire il suo nome: Sharbat Gula era ormai cresciuta, viveva in Afghanistan ed era diventata moglie e madre. McCurry le chiese nuovamente la possibilità di fotografarla e lei accettò, le due foto a confronto mostrano sempre i due grandi occhi verde ghiaccio che scrutano con intensità il suo osservatore. Lo scopo della foto era quello di far conoscere la situazione insostenibile dei rifugiati afghani, di attirare l’attenzione del mondo su ciò che stava accadendo in quel periodo in quel paese, così lontano dalla nostra realtà.

Angkor (Cambogia), Steve McCurry, 1999

È questo lo scopo del lavoro di Steve McCurry, documentare le difficili situazioni in tutti quei paesi che noi conosciamo a malapena, quei paesi di cui sentiamo parlare nei telegiornali, ma che dimentichiamo subito dopo; un esempio sono le fotografie di bambini della Birmania durante il periodo della Seconda Era Militare, tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, periodo durante il quale vi furono molte insurrezioni contro il regime nelle quali molti giovani persero la vita. Figura di spicco tra coloro che si ponevano contro al regime fu Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San uno dei principali responsabili dell’indipendenza della Birmania dal controllo britannico, che fu eletta democraticamente nel 1990 ma tenuta ingiustamente agli arresti domiciliari fino al 1995. Fu proprio dopo la prigionia che McCurry poté fotografare la leader birmana nella sua casa di Rangoon, dove vi rimase in semilibertà fino al 2010.

Aung San Suu Kyi a Rangoon, Steve McCurry, 1995

McCurry si recò anche in Cambogia per documentare l’occupazione vietnamita che iniziò nel 1979 e durò fino al settembre 1989, anche qui sono messi in rilievo i volti dei bambini costretti a subire la guerra e la fame.

La produzione di McCurry non è legata soltanto alle testimonianze riguardanti le zone di guerra: documenta la vita quotidiana di paesi come il Kosovo e il Montenegro che subivano una situazione politico-economica fragile che sfocerà successivamente nello scoppio della guerra civile tra la maggioranza di etnia albanese e la minoranza serba, scontro che portò poi allo smembramento finale della Repubblica Federale di Jugoslavia.

Montenegro (Ex-Jugoslavia), Steve McCurry, 1988

L’intento di Steve McCurry è sempre stato quello di narrare storie che partono dalla gente comune, i suoi ritratti sono la ricerca di quell’attimo di autenticità e spontaneità capace di raccontare una persona o la storia del suo popolo. La fotografia, così come la scrittura e anche la pittura, possono essere uno strumento potente che permetta di raccontare e commentare ciò che accade in un paese lontano da noi e che merita di essere compreso.


 

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