Navalny e gli altri: chi rimane?

Aleksej Navalny è morto”, questa la frase che ha riecheggiato per settimane sulle prime pagine della stampa internazionale. Avvocato, attivista anti corruzione, leader e fondatore del Partito democratico del progresso, su tutti il più tenace oppositore del regime di Putin. Potremmo tesserne le lodi a lungo, se non fosse che se ne sono già occupati in molti, quindi guarderemo al presente. Il dissidente con il suo operato e la sua dedizione si è distinto nella lotta allo strapotere del capo del Cremlino, ma è bene ricordare che non è stato l’unico. Nel mondo ci sono molti altri Navalny di cui non si parla abbastanza e su cui è giusto gettar luce.

Ahmed Mansoor

Ahmed Mansoor, attivista diritti umani dell’EAU

Ahmed Mansoor è un attivista per i diritti umani degli Emirati Arabi Uniti. Dal 2006 si occupa di dar voce alle ripetute violazioni dei diritti umani nel proprio Paese tramite il suo blog e i social media, ricevendo continue minacce di morte, intimidazioni e infrazioni, tra cui una ad opera dell’azienda italiana Hacking Team nel 2012.

Dunque una situazione al limite, dalla quale non aveva via d’uscita anche nel senso letterale del termine: nel 2011 il suo passaporto era stato ritirato (la misura viola il diritto alla libertà di circolazione e impedisce di lasciare la nazione).

Da maggio 2018 sta scontando una condanna a dieci anni di reclusione nel carcere di al-Sadr ad Abu Dhabi. L’accusa? Aver svolto il proprio mestiere, quindi è a tutti gli effetti un prigioniero di coscienza. D’altronde, è l’unica risposta che si può dare a questa domanda, dal momento che le autorità si sono rifiutate di rendere noti i capi d’accusa. Ad oggi viene detenuto in condizioni disumane in una minuscola cella di isolamento, senza la possibilità di avere qualunque contatto con l’esterno o con i propri familiari.

Ilham Tohti

Ilham Tohti, professore universitario uiguro

Classe 1969, professore universitario, stimato intellettuale di fama mondiale, attivista. Ilham Tohti ha dedicato la sua vita alla promozione del dialogo e della collaborazione tra uiguri e cinesi han (etnia maggioritaria). Una vera e propria lotta la sua, considerate le condizioni in cui versa l’etnia nello Stato cinese. I fatti documentano di numerosi scontri avvenuti nello Xinjiang, regione dove la comunità è stanziata ed esposta a una marcata discriminazione. Ad oggi è trattenuta in quelli che sono ufficialmente riconosciuti dallo stato come “centri per la trasformazione attraverso l’educazione”, ma che ufficiosamente sono dei campi di internamento.

Tohti dal suo blog Uyghur online ha denunciato le sevizie praticate in questi ambienti. In cambio ha ricevuto una sola risposta: la repressione. Il sito è stato chiuso più volte perché giudicato scomodo e il suo autore arrestato poi nel 2014. Nello stesso anno viene condannato all’ergastolo, per la stessa ragione del sopracitato Ahmed: l’esercizio della libertà di espressione. Prigioniero di coscienza, la sua vita ora è destinata a svolgersi in carcere.

Bobi Wine

Immagine ufficiale di Bobi Wine, capo dell’opposizione ugandese

All’anagrafe Robert Kyagulanyi Ssentamu, noto con il nome d’arte Bobi Wine. Per molti “lo Zelensky africano”, probabilmente per la vena artistica che accomuna entrambi. Musicista e politico, in un’intervista ad «Esquire» del 2022, spiega come si è guadagnato la credibilità politica grazie ai temi affrontati nelle sue canzoni: in Situka rivolge ai giovani l’invito ad alzare la testa contro l’oppressione, mentre in Dembe si rivolge direttamente al presidente, invitandolo alla resa del potere.

Da qui inizia un’ascesa, che lo porta a fondare poi il People Power, our power, principale partito di opposizione in Uganda. Leader carismatico e popolare, si presenta agli occhi del dittatore come un ostacolo da eliminare. Dal momento in cui presenta la sua candidatura il 3 novembre 2020, è oggetto di numerosi atti di oppressione e minacce (tra cui due tentativi di assassinio) che hanno coinvolto non solo lui medesimo ma anche i suoi collaboratori. Ciò lo ha portato alla decisione di sospendere la sua campagna elettorale il primo dicembre. Oggi è protagonista del film documentario Bobi Wine: the people’s president, candidato agli Academy Awards del 2024.

Sônia Guajajara

Sônia Guajajara, ministro per le popolazioni indigeneNel 2023 si scrive una pagina importante nella storia politica carioca: per la prima volta il Brasile ha un ministro che tutela, rappresenta e guida le popolazioni indigene nel Paese. Gli onori di casa spettano a una donna: Sônja Guajajara. È leader della più grande organizzazione di difesa degli indigeni del Paese oltre che tra i critici più ostinati del governo di Jair Bolsonaro.

La nomina giunge in un periodo particolare per il Brasile: l’era Bolsonaro ha lasciato in eredità una profonda crisi ambientale e umanitaria. Dunque il nuovo governo di Luiz Inácio Lula da Silva deve risanare lo strappo e in questo senso figura chiave sarà proprio quella dell’attivista.

Non a caso il suo primo impegno ufficiale ha luogo nello Stato di Roraima, sede della comunità dei Yanomami. Quest’ultima durante il governo dell’ex presidente, ha subito quello che Lula ha definito un vero e proprio genocidio. L’invasione ad opera dei Garimperos, cercatori d’oro illegali, ha fatto precipitare la popolazione in una grave emergenza sanitaria, alimentare e ambientale. In questo quadro la missione del ministro è una: risollevare le sorti dei popoli indigeni nel Paese.

Gli altri Navalny

Perché li definiamo “gli altri Navalny”? All’apparenza la risposta può sembrare quasi scontata dato il loro impegno nell’opposizione e nella difesa dei diritti; c’è però un altro comune denominatore: la dedizione. Navalny nel corso della sua vita si è distinto per coraggio e determinazione. Ha condotto la sua battaglia in uno scontro certamente non ad armi pari e ne ha pagato più e più volte le conseguenze: si pensi al tentativo di avvelenamento con il Novichok (gas nervino) nel 2020 oppure l’internamento in Siberia, durante il quale ha subito numerose torture. Nonostante ciò non si è mai arreso. Dunque, la sua lotta, una parabola che sembra essere il filo rosso che lo lega ai suoi colleghi, è in realtà portatrice di un ideale più alto: la sconfitta non è un’opzione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.