“Il più bel secolo della mia vita”: accettarsi come figli

Tra le pellicole arrivate nelle sale cinematografiche nel corso di quest’autunno, svettano diverse commedie che portano una firma italiana: Il più bel secolo della mia vita è stata forse una delle maggiori sorprese. Diretto da Alessandro Bardani, con l’interpretazione di Sergio Castellitto e Valerio Lundini, la pellicola racconta in maniera semplice e lineare la vita dei suoi protagonisti, intrecciando la trama con una tematica complessa e delicata come la genitorialità e il rapporto con i propri figli, oltre ogni legame biologico.

Mix

Inserire Il più bel secolo della mia vita in una categoria cinematografica potrebbe non essere semplice come sembra: il film è etichettato come commedia, e possiede tutti gli elementi per esserlo, ma al tempo stesso assume le caratteristiche di un road movie e di un’opera più riflessiva, che porta lo spettatore a guardare le cose da una prospettiva diversa.

I protagonisti della storia sono Gustavo (Sergio Castellitto) e Giovanni (Valerio Lundini), che fin dal primo momento entrano in scena come rappresentanti di due generazioni diverse e di due mentalità opposte. Gustavo è uno dei pochi, se non l’unico, figlio non riconosciuto e centenario: Giovanni lo recupera dalla casa di riposo in cui vive, per portarlo con sé come testimonianza vivente dell’assurdità della “Legge dei cent’anni”, che impedisce ai figli non riconosciuti di conoscere l’identità dei propri genitori e quindi le proprie origini prima di aver compiuto i cent’anni di età. Quella di Giovanni è una vera e propria lotta, un tentativo di rivoluzione contro quella che lui definisce una “legge assurda”: ai suoi occhi Gustavo rappresenta l’unico mezzo per dimostrare la validità della propria tesi e poter finalmente cambiare le cose.

Non solo commedia

Proprio in questo passaggio entra in gioco il lato più drammatico della storia, che si rivela sempre nelle parole di Giovanni: 

“Una persona che non sa da dove viene è una persona incompleta”. 

Lapidario ed estremamente convinto delle proprie idee, il personaggio di Giovanni in Il più bel secolo della mia vita è la parte cinica e realista della storia, che deve per forza trovare una spiegazione e un motivo per tutto ciò che lo circonda. Al contrario Gustavo vive con la tranquillità e la pacatezza di chi, arrivato alla fine della propria esistenza, ha fatto pace con il proprio destino. Queste due tendenze agli antipodi generano ben presto un momento di inevitabile contrasto, in cui entrambi i personaggi difendono il proprio pensiero, dando modo allo spettatore di riflettere sulla tematica in tutta la sua complessità.

Essere genitori non è soltanto questione di genetica, è una scelta che va ben oltre: Il più bel secolo della mia vita non parla soltanto di genitori, ma parla soprattutto di chi accetta di essere figlio e delle difficoltà di costruire una famiglia con due persone che sarebbero altrimenti rimaste degli sconosciuti.

Semplice

Nonostante la tematica delicata e forse poco analizzata nel contesto cinematografico, Il più bel secolo della mia vita non ha la pretesa di diventare un film estremamente riflessivo o complesso: rimane nella parentesi della commedia proprio perché non vuole dare una lezione di vita, ma semplicemente di fare luce su un tema che molte volte appare ancora sconosciuto ai più. 

Anche il finale in parte già atteso ricalca questa teoria: il pubblico si aspetta che Gustavo faccia qualcosa di inaspettato, ed è proprio così che accade. Tuttavia, anche per coerenza con il suo personaggio, non si lascia andare a grandi discorsi o a frasi da standing ovation. Ci ricorda soltanto una frase, che in fondo tutti sappiamo già: 

“I figli non sono di chi li fa, sono di chi li ama”. 

Un’ovvietà forse, ma che evidenzia qualcosa che, ancora oggi, si tende a dimenticare. I legami, gli affetti, la famiglia sono tutti concetti che vanno ben oltre la definizione di legame biologico, e ricordarlo non fa mai male.

Limiti

Il più bel secolo della mia vita non è quindi un film da grande mostra cinematografica, e nemmeno ha la pretesa di diventarlo. Resta sulla propria linea, senza fronzoli inutili e senza retorica, rispettando pienamente i canoni della commedia adatta a tutti. Un limite forse, ma che in realtà dimostra come la pellicola, nella sua semplicità, voglia rimanere coerente a una trama altrettanto semplice, che i più cinici definirebbero quasi scontata. Sì, perché già dalle prime scene è facile intuire quale sia il finale: Gustavo è una persona che, nonostante l’età, si dimostra fin da subito sopra le righe ed è lui, con la saggezza dei suoi cent’anni, a decidere il finale della storia.

Realtà

Nonostante quindi la trama non abbia particolari colpi di scena, ci sono però alcuni elementi che colorano le vicende narrate, innalzandole almeno un po’ rispetto al livello di una storia troppo prevedibile. Se lo spettatore più sognatore e idealista immagina già un lieto fine per Gustavo, la realtà delle cose riporta tutti con i piedi per terra.

Proprio a causa dell’ingiustizia nascosta dietro la Legge dei cent’anni, per il protagonista non ci può essere nessun finale allegro, se non la magra consolazione di conoscere finalmente l’identità della propria madre, ridotta a un nome e a un cognome scritti su un vecchio registro. Gustavo, sempre con l’aiuto di Giovanni, trova la pace davanti alla lapide di un cimitero e così si chiude la pellicola, sottolineando ancora una volta i limiti e le ingiustizie che questa legge impone.

Dunque, Il più bel secolo della mia vita forse non diventerà il film dell’anno per il cinema italiano, ma regala comunque un momento di compagnia, facendo luce su una tematica di cui molti ignorano l’importanza. Soltanto una piccola parte di popolazione può sentirsi presa direttamente in causa, ma questo non significa che la pellicola non tratti di temi che potrebbero coinvolgere chiunque, tra chi sceglie di essere genitore e chi accetta di essere figlio.

 

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