Sulla difficoltà di denunciare una violenza sessuale o psicologica

Denunciare una violenza sessuale non è semplice. Ma quali sono le difficoltà che una donna può affrontare durante questo percorso? Quali sono i fattori e le considerazioni che spingono a denunciare una violenza subita solo anni dopo il fatto? Esistono delle stime che dicono quante donne decidono di non denunciare una violenza o un abuso?

Sei donne su dieci

Su 196 donne uccise per motivi di genere, 123 di loro (63%) non avevano comunicato a nessun conoscente o autorità le violenze pregresse subite dall’uomo. Più di sei donne su dieci. Questo è il quadro che emerge dal report della Commissione di inchiesta parlamentare del Senato sui femminicidi, che ha analizzato e studiato i fascicoli di indagine di tutte le Procure italiane sui casi di donne uccise da un uomo tra il 2018 e il 2019 per creare una panoramica generale del problema.

Di queste 196 donne solo sessantanove, ovvero il 35%, ne avevano parlato con una persona cara, diciotto (9%) si erano rivolte a un legale e ventinove (15%) avevano denunciato violenze passate. Secondo l’intergruppo politico i dati rivelano la grande difficoltà delle vittime nel cercare aiuto e allo stesso tempo denuncia il forte ritardo delle istituzioni a investire sulla costruzione di contesti adeguati a favorire la ricerca di aiuto e di sostegno.

Una questione culturale

Dall’inizio del 2023 sono morte più di cento donne per mano di un uomo solo in Italia. Il femminicidio scardina le differenze di classe: la maggior parte dei delitti sono stati commessi da italiani, nello specifico 150 su 196, e ciò a prescindere dalla professione, dall’estrazione, dal reddito e dal livello di istruzione. Il problema quindi è del tutto culturale. Come definito nel report della Commissione:

«il femminicidio si configura come una dimostrazione di forza, superiorità, volontà di dominio e possesso dell’uomo sulla donna al di là della possibile volontà di indipendenza e di rottura dell’unione della donna stessa».

Più della metà sono state uccise dal partner, inteso come marito, fidanzato o amante, ma anche per mano di padri, figli, ex compagni e conoscenti. Nonostante dagli anni ’80, con l’abrogazione delle disposizioni sul delitto d’onore nel 1981, la giustizia abbia fatto dei passi in avanti in tema di delitti di genere e tutela delle vittime, i femminicidi non sembrano avere una tregua. La cultura della dominanza è ancora strutturata e radicata nel nostro Paese e rappresenta solo la punta di un iceberg molto più grande di abusi e violenze, da quella sessuale a quella psicologica ed economica che spesso si consumano nel silenzio delle vittime.

Le leggi non bastano

Le leggi sulla tutela delle donne servono, e serviranno, ma non sono ancora sufficienti per contrastare il problema perché la violenza è espressione di una profonda speculazione di potere che esiste ancora nella dinamica uomo-donna. Il seme della violenza sta nella disparità, nella posizione di superiorità che ancora troppi uomini credono di avere, e il lavoro più urgente sta nell’eradicazione della cultura di odio e prevaricazione, che deve partire dall’educazione a scuola e in famiglia. Come afferma la scrittrice Ginevra Lamberti:

«È necessario operare sulla cultura del Paese, sulla trasmissione di una conoscenza che smantelli l’incubo che abitiamo. Che decostruisca la gerarchia di genere e che restituisca il senso dell’esistenza e della mortalità altrui».

Ma perché le vittime non denunciano?

Nonostante le violenze siano numerose, la denuncia formale alla polizia rimane poco diffusa. I social media però si sono rivelati un mezzo di comunicazione potente per le vittime che vogliono far sentire la loro voce, la quale altrimenti rischierebbe di restare in silenzio. Twitter e Instagram hanno diffuso gli hashtag #MeToo, che ha permesso a milioni di persone di rivelare le aggressioni e gli abusi sessuali subiti durante l’infanzia, e  #WhyIDidntReport attraverso cui gli utenti hanno deciso di rendere pubbliche le ragioni per cui non hanno denunciato quanto subito, anche molti anni prima. Il primo, secondo i dati dell’’istituto americano Pew Research Center, nel giro di un anno da quando è stato creato nel 2017, è stato utilizzato ben 19 milioni di volte solo su Twitter, a dimostrazione della potenza dei social media come strumento di denuncia.

#WhyIDidntReport

Tra le varie motivazioni emerge l’angoscia e il terrore di ritorsioni, la paura di non essere credute soprattutto quando il colpevole è in una posizione superiore e di potere rispetto alla vittima. A questa si aggiunge la paura di essere incolpate; viene fatto credere loro che sia colpa loro. Non è raro che venga chiesto che cosa indossassero quel giorno, se avessero bevuto troppo oppure se avessero fatto intendere una sorta di consenso in precedenza, facendole in questo modo sentire come se lo avessero cercato e avessero fatto in modo che accadesse. Quando poi la denuncia arriva con anni di ritardo la domanda più frequente è: «Perché non la ha detto prima? Perché solo ora?», senza tenere in considerazione i risvolti psicologici e lo stress postraumatico che potrebbe aver impedito alla donna di parlare prima.

Altre volte la paura è quella di rivivere il trauma quando viene chiesto dalle autorità di raccontare tutto nei dettagli e fornire prove sussistenti. L’aggressione è già traumatica e spesso la vittima non si trova nella situazione mentale di riuscire a parlarne. Molte persone hanno infatti condiviso su Twitter la scelta di tenere la violenza per sé per molti anni perché tormentati dal senso di colpa, la vergogna, la paura e la confusione; altri hanno ammesso di voler dimenticare e per questo hanno scelto il silenzio.

Le conseguenze del silenzio

I ritardi nel rivelare la violenza sessuale, o il non rivelarla affatto, continuano a persistere e sono preoccupanti. Quanto più a lungo si tace, tanto più a lungo le persone convivono con gli effetti negativi potenzialmente gravi che ne possono derivare. Gli effetti sulla salute mentale e fisica degli abusi e delle violenze sessuali sono ben documentati: includono depressione, ansia, disturbi da trauma, dipendenze, disturbi riproduttivi e malattie cardiovascolari. Inoltre questi effetti si ripercuotono negativamente sulle relazioni intime e con i coetanei, sulla genitorialità e sulla produttività del lavoro, creando un circolo vizioso che può pregiudicare la vita di molte persone.

Denunciare, come affermato in precedenza, non è semplice, neanche dopo anni. Il sistema giuridico dovrebbe, a rigor di logica, essere al primo posto nella difesa delle donne, ma più volte ha fallito. Un cambio di scenario sembra utopico e forse lo sarà finché non si ribalterà questa cultura di sopraffazione dell’uomo sulla donna.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.