“C’est l’Article 15, papa!”

“Ci hanno insegnato la meraviglia

Verso la gente che ruba il pane

Ora sappiamo che è un delitto

Il non rubare quando si ha fame”

Nella mia ora di libertà, Fabrizio De André

Cosa fai quando nessuno difende i tuoi diritti fondamentali, quando il governo del tuo paese perpetua un modello di corruzione che rende i poveri sempre più poveri e gli affamati sempre più affamati, quando il resto del mondo non sa niente di te, della tua cultura, della tua storia e non hai i soldi per andare via? Probabilmente pensi qualcosa come “io speriamo che me la cavo”, ma per farlo devi per forza farti furbo, e scendere a compromessi. “C’est l’Article 15, papa!”.

Articolo 15: strategie di sopravvivenza

L’Articolo 15 della Costituzione della Repubblica Democratica del Congo, il cui testo è stato adottato nel 2006 e modificato nel 2011, fa riferimento ad alcune norme relative alla violenza sessuale. Ma esso non c’entra niente con l’Articolo 15 a cui si fa riferimento nel linguaggio comune, ridendo ad alta voce tra le strade terrose della periferia di Kinshasa o su una moto sovraffollata senza casco.

Questo Articolo 15 spiega il districarsi da situazioni di difficoltà per, alla fine, cadere in piedi, ed è un articolo immaginario della Costituzione, usato come espediente per giustificare stratagemmi di sopravvivenza o, talvolta, episodi di corruzione. Si dice che l’Articolo 15 reciti, letteralmente, Debrouillez-vous, ovvero Arrangiatevi. Deriva da una frase che avrebbe pronunciato Albert Kalonji, leader della breve esperienza secessionista del South Kasai. Se oggi viene più rispettato il leggendario Articolo 15 che quello della Costituzione ufficiale è perché le persone ben conoscono la propria classe politica e il disinteresse internazionale per la propria situazione, e sanno bene di dover gestire la propria vita in autonomia, senza contare su alcun welfare o servizio pubblico.

Le strategie di sopravvivenza a cui fa riferimento l’Articolo 15 sono le più svariate: chi cerca lavoro, ad esempio, si adatta a tutto, finendo spesso per fare lavori come quello da motar. Si chiamano motar le persone che guidano delle specie di moto-taxi, e lavorare su una di queste significa mettere in costante pericolo la propria vita. Per molti, tuttavia, è l’unico modo per guadagnarsi qualcosa da mangiare: è il caso, per esempio, di Théo, che mi presentano proprio come motar affinché mi dia un passaggio dal quartiere dove mi trovo a Matete. Laureato in Scienze Sociali, studente di Risorse Umane, vorrebbe fare ricerca sul campo sulle condizioni delle persone del quartiere dove vive, oppure collaborare con me e diventare giornalista, ma non può permetterselo e così, per ora, sfreccia su e giù da una strada allagata durante la stagione delle piogge e polverosa il resto del tempo nel quartiere Ndanu, che da anni le varie figure politiche promettono di asfaltare ma che, nonostante la relativa vicinanza al centro, è ancora abbandonato a se stesso.

A Kinshasa si usa spesso anche il verbo se retrouver, ritrovarsi, per indicare la tendenza comune a dover in qualche modo ricavare qualcosa di buono da ogni esperienza in cui, volenti o nolenti, si capita. Così, se per caso ci si ritrova a lavorare in un ufficio pubblico, è normale domandare un sovrapprezzo per ogni compito che si svolge. «The Economist» nel 2018 scriveva addirittura che l’80% degli introiti dei poliziotti che regolano il traffico deriverebbe proprio da questi giochetti informali – ai preti, per esempio, si chiede “un rosario” o “una preghiera” per dire che devono dare loro dei soldi. Giustificabile no ma comprensibile sì, in un contesto in cui secondo i dati della World Bank nel 2022 circa il 62% dei congolesi viveva con meno di 2.15 dollari al giorno, in cui il salario medio è di 172,5 dollari al mese e in cui, spesso, gli stipendi arrivano – se arrivano – con mesi, anni di ritardo.

L’Articolo 15 non è molto diverso dal cosiddetto Système D (chiamato così proprio perché D sta per debrouiller, cavarsela, anche nella forma inglese, System D) e dal Trick17, modo di dire popolare in Germania di cui non si conosce l’origine, ma che potrebbe derivare da un gioco di carte oppure da un piano strategico messo in atto durante la prima guerra mondiale.

Il contesto

La Repubblica Democratica del Congo (da non confondere con la Repubblica del Congo, con cui confina e da cui è divisa proprio dal fiume Congo) è uno stato dell’Africa Centrale con alle spalle una drammatica storia di colonialismo belga e di sfruttamento delle sue risorse, ai tempi, soprattutto, la gomma. Si tratta di un paese enorme, grande circa un terzo dell’Europa e con 5 lingue ufficiali (oltre al francese, lo swahili, il lingala, il kikongo e kingwana). Il suo territorio è uno dei più ricchi del mondo in termini di risorse naturali: vi si trovano, infatti, immense miniere di cobalto, rame, uranio, ma anche (e soprattutto) oro e coltan. Quest’ultimo, in particolare, viene usato per produrre smartphone e computer di ultima generazione, e su scala globale viene estratto per l’80% proprio in Congo. Com’è che allora il paese versa in una situazione di povertà, dove la gente deve reinventarsi ogni giorno per sopravvivere?

articolo 15

Di queste miniere si sono appropriati investendoci vari stati del Nord globale (la parte ricca del mondo, per intenderci), che da decenni distruggono le foreste che si trovano in corrispondenza dei giacimenti minerari e sfruttano la manodopera locale violandone i diritti umani per estrarre, esportare e utilizzare i materiali nella produzione di oggetti di ultima generazione venduti a prezzi che la popolazione congolese non potrebbe mai sostenere. Ma le responsabilità dei paesi ricchi, come detto, affondano già nel periodo del colonialismo e nel rapidissimo processo di decolonizzazione, avvenuto in fretta e furia nel 1960. Il Congo è, insomma, un paese che conosce benissimo lo sfruttamento, e tutto quello che ne deriva: l’ironia dell’Articolo 15 dimostra però la resilienza e la scaltrezza di chi non si piange addosso, ma resiste.

Le elezioni di dicembre

Le prossime elezioni presidenziali sono previste per il 20 dicembre del 2023, ma per il momento c’è poca speranza in un effettivo cambiamento dello status quo. Il fatto che si voti contemporaneamente per il Presidente della Repubblica, per l’elezione dei membri del Consiglio Nazionale, per i membri delle ventisei assemblee provinciali e per 300 consigli comunali, inoltre, non è una garanzia di democrazia, ma potenzialmente un ulteriore elemento di confusione.

I risultati delle elezioni del 2019, infatti, sono stati annunciati tre giorni dopo la data prevista, e non sono mai stati pubblicati o resi noti dati ufficiali sulle percentuali dei vari candidati. Il presidente in carica, Félis Tshisekedi, è quindi giunto al potere dopo aver sconfitto Joseph Kabila, l’ex presidente che aveva ereditato il potere dal padre. La sua sembrerebbe però essere stata un’opposizione solo apparente, dal momento che, come a più riprese denunciato la Chiesa Cattolica che monitorava i seggi, tante sono state le irregolarità, e con buona probabilità i risultati delle elezioni sarebbero stati favorevoli per Martin Fayulo, il vero leader dell’opposizione. Ora Tshisekedi ha iniziato da mesi la propria campagna elettorale, fatta di promesse (come quella di asfaltare i quartieri che ancora non lo sono, dove lavora Théo, e che sono soggetti a gravi inondazioni soprattutto durante la stagione delle piogge) e di piccole azioni di corruzione, come il dono di alcune stoffe a tutte le donne del quartiere in cambio del loro voto. Ma in fondo è l’Articolo 15, no?

CREDITI

Fotografie di Chiara Pedrocchi

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