Chi deve pagare la transizione ecologica?

In un’epoca in cui il tema della giustizia sociale e della sostenibilità è sempre più centrale e in cui gli effetti del cambiamento climatico sono sempre più evidenti, la necessità di agire si fa sentire. Molti governi e istituzioni stanno cercando di fare qualcosa: tra le varie azioni, alcuni stanno ipotizzando di imporre tasse sulla ricchezza ambientale ovvero imposte per coloro che possono sostenere i costi della transizione ecologica.

Ma cos’è esattamente questa tassa? E può davvero fare la differenza?

La proposta di legge

A marzo 2023, oltre 130 deputati del Parlamento Europeo hanno firmato una petizione, sottoscritta e sostenuta da diversi economisti, indirizzata all’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, e alle Nazioni Unite. La richiesta è semplice e chiara: imporre tasse ai più ricchi per sostenere economicamente la transizione ecologica.

La proposta è stata lanciata sul quotidiano francese «Le Monde», dall’europarlamentare francese Aurore Lalucq, democratica di sinistra e l’economista Gabriel Zucman. Questa è stata firmata soprattutto da eurodeputati verdi e di sinistra, da una dozzina di economisti e da Ong internazionali tra cui Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedica alla riduzione della povertà globale.

Perché tassare gli ultra ricchi?

Per gli europarlamentari la questione alla base è la giustizia sociale. Nel 2021, l‘1% della popolazione possedeva due terzi della ricchezza mondiale mentre la classe media stenta tutt’ora a tenere il passo con l’inflazione e i costi della vita sempre più alti e la povertà estrema è aumentata.

Tra i più ricchi del mondo, inoltre, c’è anche chi non sempre ha versato le tasse dovute: Elon Musk, proprietario di Twitter e Tesla, nel 2018, quando era il secondo più ricco del pianeta, non ha versato i suoi contributi federali mentre Jeff Bezos, fondatore di Amazon, non ha pagato le tasse nel 2007 e nel 2011.

Le multinazionali e le loro aliquote

L’aliquota fiscale per una piccola o media azienda in Europa è pari o supera il 20% del fatturato mentre per le grandi multinazionali digitali è del 9%. Da questa differenza allora è nata l’idea di chiedere a chi possiede grandi patrimoni di contribuire maggiormente nel finanziamento della politica ambientale e energetica intrapresa dai paesi ONU.

A dicembre 2022 il Consiglio Europeo ha varato un accordo internazionale sulla minimum tax delle multinazionali imposta al 15%. La direttiva include una serie di norme per calcolare tale aliquota in modo corretto e coerente in tutta l’Unione Europea, che si applicheranno su società con entrate superiori ai 750 milioni di euro all’anno. Allo stesso modo le regole valgono per grandi gruppi nazionali o internazionali che hanno la loro sede madre in un Paese membro dell’Unione. Anche questa nuova imposizione ha come base e obiettivo la giustizia sociale ed è, come la definisce il commissario degli affari economici Paolo Gentiloni, una vittoria per l’equità, una vittoria per la diplomazia e una vittoria per il multilateralismo”.

Le aziende petrolifere e lo sconcerto di Amnesty

Saudi Aramco, la compagnia petrolifera più grande del mondo controllata al 94% dal governo dell’Arabia Saudita, nel 2022 ha incassato una cifra da record: 161 miliardi di dollari. Questi incassi sono stati possibili dall’aumento dei prezzi del petrolio, attualmente pari a 88 dollari al barile, che hanno decretato l’impennata del settore dei combustibili fossili.

Non solo Saudi Aramco ha giovato della crescita dei prezzi, dovuta all’incremento del costo dell’energia a seguito dell’invasione russa in Ucraina, ma anche i suoi competitors: la società inglese Shell ha ottenuto un utile di 40 miliardi di dollari, la statunitense Exxon di 56 milardi, Chevron di 36,5 milardi e l’italiana Eni di 24 milardi.

La proposta di Amnesty International

A fronte di questi dati le associazioni ambientaliste sono sconcertate perché è evidente come l’industria fossile, principale responsabile del cambiamento climatico, sia tutt’altro che in decrescita.

“Scioccante è il fatto che questo surplus sia stato accumulato durante una crisi globale del costo della vita” dichiara Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International, organizzazione non governativa internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani. La proposta di Amnesty deriva proprio da questo sconcerto e preoccupazione: usare questi profitti record per finanziare la transizione ecologica verso le energie rinnovabili e per le campagne per il miglioramento dei diritti umani in Arabia Saudita. Questi ricavi, secondo la leader di Amnsety, dovrebbero essere usati a beneficio del pianeta e delle persone.

Joe Biden a favore della tassa ambientale

Nel febbraio 2023, Joe Biden, attuale presidente degli Stati Uniti d’America, ha avanzato un piano per contribuire alla disuguaglianza climatica globale: tassare del 25% gli ultra-ricchi con patrimoni pari o maggiori di 100 milioni di dollari, che, nel caso degli USA si applicherebbe solo allo 0.01% della popolazione americana. In un Congresso controllato dai repubblicani è improbabile che questa proposta abbia molto seguito ma uno studio ha dimostrato i potenziali effetti benefici di un sistema di tassazione del genere.

La tassa contro la disuguaglianza climatica globale

Se implementata a livello globale, infatti, una piccola tassa sulla ricchezza aiuterebbe i Paesi meno ricchi ad affrontare la crisi climatica. Secondo il «Climate Inequality Report», nel 2020 i flussi finanziari verso i Paesi in via di sviluppo sono stati 29 miliardi di dollari mentre il fabbisogno reale ammonta a 200 miliardi. Una riforma dei sistemi fiscali nazionali, che preveda una tassa dell’1,5% su ricchezze pari a 100 milioni di guadagni all’anno, permetterebbe di colmare questa mancanza e coprire i costi per l’adattamento climatico di Paesi a basso reddito, per esempio costruendo sistemi di allerta o infrastrutture resistenti.

Sulla base di questo studio ciò che viene proposto è l’imposta di un’aliquota in base alla ricchezza: 1,5% per patrimoni tra 100 milioni e un miliardo di dollari, 2% per ricchezze tra uno e 100 miliardi e 3% per patrimoni oltre i 100 miliardi. Tali prelievi si applicherebbero a pochissime persone nel mondo, circa 65mila ma avrebbero effetti benefici per tutta la popolazione mondiale.

Meno si è responsabili, più si patiscono le conseguenze

Lo studio «Climate Inequality Report» sottolinea anche come i più ricchi siano i maggiori responsabili delle emissioni di Co2 che causano il cambiamento climatico: il 10% della popolazione più ricca del pianeta genera quasi la metà delle emissioni di gas serra. La fetta di popolazione più povera, il 50% delle persone totali, genera invece il 12% delle emissioni ma subisce il 75% delle conseguenze catastrofiche.

Il Pakistan, ad esempio, è responsabile dell’1% delle emissioni di gas serra totali ma nel 2022 è stato vittima di una crisi climatica, una serie di inondazioni che ha causato la morte di 1700 persone e ha portato 20,6 milioni di persone a necessitare di assistenza umanitaria.

La tassa ambientale non rappresenterebbe una grande variazione nei conti bancari degli extra ricchi ma potrebbe fare la differenza per la transizione ecologica e per il sostentamento di miliardi di persone, non altrettanto ricche.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.