Comfort Women rally in front of the jaoanese embassy in Seoul, August 2011

“Comfort Women”: le testimonianze delle sopravvissute

Cosa sono le comfort station? Cosa si intende con il termine comfort women? Come ha reagito la comunità internazionale a riguardo? Nel presente articolo si tenterà di spiegare ciò che, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, è avvenuto in numerose province sotto dominio nipponico e a che punto ci troviamo oggi.

L’espansione del Giappone e il ruolo dell’esercito nipponico

Prima di entrare nel vivo dell’articolo, è necessario collocarci a livello temporale e spaziale, in modo da comprendere al meglio la situazione politico-sociale degli Stati in cui è nato il fenomeno delle comfort women.

Dal 1876 al 1945 la Corea del Sud si trova sotto il controllo del governo nipponico. Anche Indonesia, Filippine e Thailandia subiranno le mire espansionistiche del Giappone il quale, durante la Seconda Guerra Mondiale, si troverà al fianco dell’Italia e della Germania.

Ben presto l’esercito giapponese iniziò a compiere omicidi, violenze sessuali e  saccheggi in molte città conquistate, contribuendo al dilagare di un sentimento anti-nipponico. Per salvare la reputazione dell’esercito e contrastare un sentimento sempre più forte e radicato, il governo giapponese iniziò ad aprire le prime case chiuse, conosciute anche come comfort station. La prima comfort station venne aperta nel 1932 a Shanghai e le prime donne a lavorare al suo interno erano delle volontarie di origine giapponese.

Gli obiettivi delle comfort station erano molteplici: da un lato servivano ad evitare violenze sessuali verso donne civili e, conseguentemente, a proteggere la reputazione dell’esercito, dall’altro erano un modo per arginare la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili e, in ultimo, permettevano di limitare quanto più i rapporti con donne cinesi, considerate potenziali spie contro il governo di Tokyo.

L’origine del fenomeno

Con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il numero di comfort station iniziò a crescere e le donne volontarie iniziarono a essere troppo poche. Per questo motivo, il governo di Wang Jingwei promosse il reclutamento di donne da diversi stati asiatici attraverso annunci di lavoro fasulli.

Quando anche questa strategia cominciò a dimostrarsi fallimentare, la polizia intraprese una linea più dura. Le giovani donne, di età compresa tra i quattordici e i venti anni, iniziarono a essere prese di forza dalle loro case e venne promesso loro che non solo sarebbero presto tornate a casa ma che, in poco tempo, avrebbero guadagnato denaro sufficiente per il mantenimento delle loro famiglie.

È esattamente da questo momento che nasce il termine comfort women, traduzione della parola giapponese ianfu, letteralmente “donna che consola, di conforto”. Le giovani donne iniziarono a lavorare all’interno delle comfort station che, negli anni, erano arrivate a essere oltre duemila.

Grazie alle testimonianze di alcune comfort women, nel 1992 è stato possibile mappare la distribuzione di alcune comfort station nelle zone di dominio giapponese, come è possibile vedere dall’immagine sottostante.

Anche se inizialmente il termine comfort station era utilizzato come sinonimo di case chiuse, con il tempo ha iniziato ad avere un’accezione sempre più negativa a cause delle condizioni disumane in cui vivevano le ragazze che lavoravano al loro interno.

L’orrore delle comfort station: la storia di Kim Bok-Dong 

Kim Bok-Dong nasce nell’aprile del 1926 a Yangsan, in Corea del Sud. Durante la Seconda Guerra Mondiale, ancora quattordicenne, viene reclutata dalle autorità giapponesi per un lavoro in una fabbrica tessile. Viste le condizioni di povertà in cui versava la sua famiglia in quel periodo, Kim decide di accettare: sarebbe dovuta tornare in tre anni.

A sua insaputa, invece, inizia il viaggio verso la comfort station di Guangdong, provincia sudorientale della Cina, dove incontrerà per la prima volta gli alti ufficiali dell’esercito giapponese. Bastano poche ore per comprendere che lei, e tutte le ragazze che si trovavano lì, non si trovano lì per un lavoro in fabbrica.

Per i successivi otto anni, ogni giorno dalle nove di mattina al tardo pomeriggio, fuori dalla stanza assegnatale si estendeva una lunga fila di soldati che, uno alla volta, avevano rapporti non consensuali con lei.

Al termine della giornata i medici che si trovavano lì si occupavano di Kim e di tutte le altre ragazze, medicando le parti che avevano riportato ferite e somministrando loro medicinali che potessero alleviare i dolori nella parte inferiore del corpo.

Il numero esatto delle ragazze costrette a diventare comfort women è ad oggi sconosciuto ma l’Asian Women’s Fund (AWF), dopo la conduzione di diversi studi, ha stimato che si aggirerebbe tra 20.000 e 410.000. Kim è stata una delle poche a sopravvivere all’orrore di quegli anni: si stima infatti che la percentuale di ragazze sopravvissute sia circa del 25% del totale.

La donna nella cultura coreana

La questione delle comfort women è diventata di dominio pubblico solo nel dicembre del 1991, quando Kim Hak-sun, anche lei sopravvissuta alle violenze dell’esercito giapponese, ha alzato la propria voce raccontando quanto vissuto. Fino a quel momento, infatti, la questione era sempre stata considerata un “dato di fatto”, un effetto collaterale della guerra stessa che, in quanto tale, non era mai stato problematizzato.

Per tentare di capire come mai, almeno a livello storico-culturale, le prime testimonianze siano arrivate a distanza di anni dal termine della Seconda Guerra Mondiale, è necessario dare una breve panoramica del contesto in cui il fenomeno prese forma.

Per quanto riguarda la Corea, ad esempio, in quegli anni erano molto forti i valori neo-confuciani. In quest’ottica, la famiglia ricopriva un ruolo centrale nel mantenimento della quiete all’interno della società e la donna doveva sottostare a rigide regole di condotta. Quest’ultima, inoltre, era considerata di proprietà del marito e, in quanto tale, aveva l’obbligo morale di soddisfarne qualsiasi richiesta, anche da un punto di vista sessuale.

Proprio per questo motivo, come spiegato da molte donne, non era pensabile raccontare alle loro famiglie quanto vissuto nelle comfort station, in quanto avrebbero rischiato di essere giudicate non come vittime ma come “libertine”, avendo venduto il proprio corpo prima del matrimonio.

Opinione pubblica globale e controversie

La testimonianza di Kim Hak-sun, e di molte altre donne dopo di lei, ha portato un forte impatto a livello globale, in particolar modo all’interno del dibattito inerente i diritti delle donne e le violenze sessuali durante i periodi di guerra.

La questione delle comfort women, però, trova conferme storiche non solo in filmati e documentazioni scritte, ma anche nell’evidenza concreta dei luoghi in cui erano state erette le comfort station. Per quanto espresso finora, di conseguenza, organizzazioni internazionali come l’ONU riconoscono come valide, ormai da decenni, tutte le testimonianze fornite dalle donne sopravvissute.

Nonostante ciò, il governo giapponese non ha ancora ammesso all’unanimità la sua responsabilità politica e legale e c’è chi ancora nega quanto accaduto. Nell’agosto del 1993 Kono Yohei, presidente della Camera dei rappresentanti del Giappone, ha ammesso per la prima volta il coinvolgimento dell’esercito giapponese e ha espresso le più sentite scuse nei confronti di tutte le donne che hanno sofferto fisicamente e psicologicamente di quanto accaduto.

In opposizione a queste dichiarazioni, però, i gruppi di destra hanno sempre tentato di ritrattare le parole di Yohnei. Tra questi, la Japanese Society for History Textbook Reform ha sempre dichiarato inaccettabile e falsa ogni dichiarazione espressa dalle sopravvissute, accusandole di distorcere la storia e di infangare la reputazione del Giappone agli occhi degli altri Stati. Anche la testata Seiron, sempre politicamente schierata nell’ala destra, ha pubblicato diversi articoli in cui nega la responsabilità civile di quanto accaduto, sostenendo che le donne fossero a tutti gli effetti delle sex workers, pratica legale in Giappone fino al 1952.

Dal 2000 a oggi

La negazione dei fatti non è circoscritta unicamente al periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, ma si è protratta fino ai giorni nostri. Le dichiarazioni di Kobayashi Yoshinori, nota illustratrice giapponese di estrema destra, sono un esempio. Yoshinori ha dichiarato che se le donne che hanno denunciato le violenze subite in quegli anni fossero state donne rispettabili, avrebbero mantenuto il segreto e che, se lei fosse stata una comfort woman si sarebbe vergognata del suo stesso passato.

Nel 2007, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha continuato a negare l’accaduto e, dopo le sue rielezioni nel 2012 ha tentato di attuare una revisione al Kono Statement del 1993, evidenziando come non ci fossero prove di una coercizione su larga scala messa in atto dall’esercito giapponese a danno di donne asiatiche.

Nonostante ciò, il Giappone a metà degli anni Novanta ha tentato di fornire un risarcimento tramite l’Asian Women’s Fund alle donne sopravvissute. Questo tentativo è stato però rifiutato dal governo coreano che, ai tempi, non vedeva nel risarcimento monetario un’ammissione di colpa da parte del governo. Successivamente, nel 2015, il Giappone ha nuovamente offerto un risarcimento di 8.3 milioni sotto forma di “contribuzione umanitaria”.  In ultimo, nel gennaio del 2021, la Corte del Distretto di Seoul ha ordinato al Giappone di risarcire di quasi 100mila dollari ogni comfort women ancora in vita.

Tuttavia, come dichiarato anche da Kim Bok-Dong, a lei e a tutte le attiviste che negli anni si sono battute per far luce su questa tragedia, basterebbe una scusa formale da parte del governo giapponese: non è attraverso i soldi ma attraverso la storia che si può perdonare.

Lo schiavismo sessuale giapponese

Quindi, a distanza di quasi cento anni dai fatti, Corea e Giappone sono riusciti a trovare un punto di incontro nella narrazione di quanto avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale?

No, o quantomeno non del tutto.

A oggi, molte più persone sono consapevoli delle atrocità messe in atto dall’esercito nipponico durante la Seconda Guerra Mondiale, ma c’è ancora chi nega completamente il coinvolgimento del Giappone nella questione.

Nonostante ciò, a Seoul ogni mercoledì dal 1992, si tiene la “Wednesday demonstration”, una manifestazione in ricordo delle comfort women. Sempre a Seoul, di fronte all’ambasciata Giapponese, oggi si può scorgere la statua di una giovane ragazza (Pyeonghwaui sonyeosang), simbolo delle vittime dello schiavismo sessuale giapponese.

“I was born a woman, but never lived as a woman. I feel sick when I come close to a man, not just Japanese man, but all men […] Why should I feel ashamed? I don’t have to feel ashamed.” – Kim Hal-Sun

 

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