I nativi digitali di fronte alla rivoluzione del lavoro

Scritto da: Luca Bosio e Alice Sampietro

Ogni generazione affronta le sue calamità e le sue fatiche: la “generazione silenziosa” ha dovuto ricostruire il paese dopo il secondo conflitto mondiale, i nostri genitori e nonni hanno dovuto affrontare invece il rischio di un conflitto nucleare durante la guerra fredda.

Noi nativi digitali, ovviamente, non siamo da meno: tanto per fare una rapida selezione, abbiamo visto la Grande Crisi del 2008, la crisi del debito, una pandemia di livello globale che non si manifestava da circa un secolo (con tutte le sue ricadute economiche), l’aumento delle tensioni internazionali in merito al conflitto in Ucraina e i sempre più evidenti effetti della crisi climatica.

A tutti questi eventi bisogna aggiungere un aumento dell’incertezza nel mercato del lavoro, anche grazie all’avanzamento della ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale che, per adesso, promette di rivoluzionare il mondo professionale in modi che forse non riusciamo ancora a immaginare.

Chi sono i nativi digitali

Innanzitutto, è opportuno definire adeguatamente cosa significa “nativi digitali”. Quest’ultimo termine indica coloro che fin da giovani sono abituati all’utilizzo delle nuove tecnologie, in particolar modo Internet (e, soprattutto, i motori di ricerca come Google), e, grazie a questa loro familiarità con esse fin dalla più tenera età, sono in grado di ricorrervi con una certa disinvoltura e facilità tutt’altro che comune se confrontata con quella della generazione più anziana.

Definire, invece, la fascia d’età e gli anni di riferimento generazionale è più complicato. Il termine è stato coniato e usato per la prima volta dallo scrittore Marc Prensky nel 2001, notando come gli studenti universitari di allora interagissero differentemente col mondo grazie all’avvento di Internet che cominciava a essere presente in maniera pervasiva nella vita delle persone.

Tuttavia, se i “Millenial” possono essere visti come i primi veri nativi digitali, la definizione sopra menzionata si adatta perfettamente anche per le generazioni successive, come la cosiddetta “Generazione Z”. Il termine quindi si presenta come “transgenerazionale”, non particolarmente vincolato a una determinata età, quanto, al contrario, a un determinato e “naturale” rapporto con la tecnologia che nelle persone di precedenti generazioni era molto più insolito se non, in casi estremi, molto estraneo.

Un mercato del lavoro che cambia

Come sopra scritto, una delle maggiori incertezze dei “nativi digitali” è affrontare il mercato del lavoro. Nel mondo del lavoro in Italia si riscontrano diversi problemi: il tessuto imprenditoriale italiano ha una produttività relativamente bassa rispetto a quello di altri partner europei di pari livello, e questo ha portato nel corso degli anni ad avere salari relativamente più bassi. I giovani d’oggi, conseguentemente a ciò, devono fronteggiare una situazione in cui gli stipendi non sono particolarmente generosi e a ciò si aggiungono le sfide che il terremoto economico del conflitto russo-ucraino ha demarcato recentemente.

Oltre ai dati economici, ciò che contribuisce a creare incertezza (ma anche potenziali opportunità) è l’introduzione di nuove tecnologie nel mercato del lavoro. Recentemente è stato molto discusso il caso del famoso chatbot ChatGPT, basato sull’intelligenza artificiale, e della sua “piccola epopea” con il Garante italiano della privacy sul rispetto della normativa europea GDPR.

L’impatto delle nuove tecnologie sul mondo del lavoro

L’impatto delle nuove tecnologie ha cambiato il nostro modo di pensare il mondo e di approcciarci ad esso. Viviamo in una realtà in continuo cambiamento, dove le distanze geografiche e temporali si sono accorciate fino ad annullarsi. L’impatto di Internet ha cambiato le nostre abitudini e il modo di entrare in relazione con gli altri, dando inizio a una rivoluzione destinata a non trovare ancora una fine.

Di fronte a questo mondo nuovo, anche l’approccio al mondo del lavoro ha subito un’enorme cambiamento. Alcune professioni sono andate incontro a una riorganizzazione interna, che ha permesso loro di stare al passo con i tempi (si pensi, ad esempio, come è cambiato il lavoro d’ufficio negli ultimi vent’anni); altre professioni sono andate perdute, com’è già successo durante altri grandi periodi di cambiamento; altre ancora si sono modificate a tal punto da non sembrare più le stesse; mentre in altri casi si è assistito alla nascita di nuove occupazioni che fino a vent’anni fa erano inimmaginabili.

Questi continui cambiamenti richiedono una mentalità aperta e pronta a cogliere nuove sfaccettature. Di fronte a questo fatto è inevitabile chiedersi se esistono delle differenze nel modo di approcciarsi al mondo del lavoro da parte di generazioni diverse.

Quanto pesa la tecnologia nelle differenze generazionali?

Prima di tutto, è bene sottolineare che essere cresciuti circondati dalle nuove tecnologie non equivale a saperle usare effettivamente. Quindi, essere nativi digitali non è garanzia di conoscenza, così come essere “immigrati digitali” non comporta il contrario. A prescindere dalla data di nascita e dalla generazione di appartenenza, per sapere usare correttamente le nuove tecnologie e i nuovi mezzi di comunicazioni è necessaria un’educazione specifica.

Molti concordano con l’esigenza di un’educazione alla digitalizzazione che insegni fin dalle scuole i vantaggi e gli svantaggi del mondo digitale, anche come forma per contrastare la circolazione delle fake news e i lati oscuri di Internet. Tuttavia, è impossibile non notare delle differenze intrinseche tra i cosiddetti nativi digitali e coloro che sono nati prima che la tecnologia diventasse così pervasiva. Ogni generazione possiede il proprio “know-how” e una maggiore dimestichezza con le tecnologie rientra di certo nell’area di competenze dei nativi digitali, che sono nati circondati da questi strumenti.

Troppo lavoro per i nativi digitali?

La pervasività dei nuovi strumenti di lavoro ha determinato un abbattimento della barriera casa/lavoro. Oggi, lasciare fisicamente il posto in cui si lavora non equivale per forza a terminare il proprio turno. Le nuove tecnologie ci permettono una connessione continua e hanno dato avvio a tante rivoluzioni. Di certo questo fatto consente una maggior flessibilità e un adattamento maggiore ai ritmi di lavoro personali. Certe professioni, oggi, hanno la possibilità di autogestirsi senza l’obbligo di rientrare entro le fatidiche “otto ore”, iniziando e finendo a un orario prestabilito da altri. Il lavoro è diventato più smart e le nuove generazioni pretendono più flessibilità, nei termini di spazio e tempo, ma questo non sempre è un fatto positivo.

Quali sono gli svantaggi di una connessione continua?

Se sotto alcuni aspetti una connessione continua rappresenta un vantaggio, sotto altri è un punto a sfavore per un miglior bilanciamento tra vita lavorativa e vita professionale. Secondo uno studio americano pubblicato su «Forbes», il 66% dei nativi digitali ha dichiarato di sentirsi affetto da “workaholism”, termine coniato dallo psicologo Wayne Oates, e che indica un comportamento affetto da un’incontrollabile necessità di lavorare in continuazione. Ma non è tutto perché dalla ricerca è emerso che i nativi ditali si ritroverebbero sempre connessi anche in situazioni particolari. Ad esempio, il 63% degli intervistati ha dichiarato di essere produttivo anche in condizioni di malattia, il 32% ha ammesso di lavorare addirittura in bagno e il 70% di rimanere attivo nel weekend. Secondo un altro sondaggio pubblicato su «Washingotn Examiner», il 39% dei nativi digitali sarebbe disposto a lavorare perfino in vacanza.

Marina Osnaghi, prima Master Certified Coach in Italia ha spiegato che: “Nei geni dei giovani digitali è insita l’attitudine all’utilizzo di ogni apparato tecnologico che permetta una connessione al mondo, senza bisogno di spostarsi dal proprio ufficio e dalla propria casa. Ciò comporta un cambiamento della percezione del tempo e uno stato di trance che li fa diventare incoscienti.”

Nuove prospettive

L’apertura del mondo dell’IA verso gli utenti più profani e meno conoscitori della tecnologia che ChatGPT ha consentito recentemente è incredibile e porterà grossi cambiamenti in un futuro probabilmente più vicino di quello che pensiamo, ma è difficile fare previsioni esatte. Si può facilmente pensare che molti ruoli verranno automatizzati e che, di conseguenza, andranno persi molti posti di lavoro (basti pensare al lavoro “burocratico” e di ricerca delle professioni economiche e legali, che adesso richiederà meno tempo poiché un’intelligenza artificiale ben addestrata può produrre risultati più rapidi e precisi). Tuttavia, ciò può essere solo un lato della medaglia: la rivoluzione industriale non ha solo cancellato vecchie occupazioni, ma ne ha create di nuove, che richiedevano competenze diverse e che, forse, prima risultavano difficili anche solo da pensare e concepire.

Il ruolo di ChatGPT

Questo potrebbe essere il risultato di questa nuova rivoluzione: molti ruoli e lavori “algoritmizzabili” potranno essere appaltati a un’intelligenza artificiale, mentre i professionisti e i lavoratori avranno più tempo per focalizzare le loro energie e il loro tempo su incarichi più “intellettuali” e “creativi”. Inoltre, diventeranno più importanti nuove capacità che contribuiranno alla nascita di nuovi lavori: un esempio tra questi è il “prompt engineering”. Il prompt engineer ha l’abilità di testare i sistemi di intelligenza artificiale, come è il caso di alcuni chatbot come ChatGPT, per verificarne la robustezza e scoprire eventuali falle; questo incarico richiede una buona conoscenza del rapporto che si instaura tra uomo e macchina, che rivelerà sempre più chiave nel vicino futuro.

Anche se non si è ancora sicuri dell’efficacia che il prompt engineering può avere (e quindi del fatto che meriterà o meno un posto nel mercato del lavoro), il caso è emblematico nel mostrare come le priorità in ambito lavoristico potrebbero essere capovolte molto presto. Se prima erano molto valorizzate le capacità interpersonali in un luogo di lavoro, adesso a un futuro lavoratore verrà richiesto anche di sapersi interfacciare in maniera produttiva con macchine e robot sempre più sofisticati e a livelli sempre più profondi, al punto da richiedere una preparazione e una competenza sempre maggiore, sofisticata e un’acuta coscienza delle potenzialità dell’IA.

I timori dei nativi digitali

Ma in ambito lavorativo l’approccio alla tecnologia non è l’unica caratteristica che differenzia i nativi digitali dalle precedenti generazioni. Anche la prospettiva e il timore di un’imminente crisi climatica influenza prepotentemente la vita lavorativa dei più giovani. Sulla linea di un maggiore interesse per la questione ambientale, come testimoniato dalla Global 2022 Gen Z and Millennial Survey (indagine globale 2022 sulla Gen Z e sui Millennial) della Deloitte, entrambe le generazioni considerano un elemento fondamentale il fatto che i valori dell’impresa o dell’organizzazione per cui lavorano siano simili ai loro.

La paura di non avere un futuro

Questo approccio diventa un’inevitabile necessità di fronte alla consapevolezza che in futuro gli eventi climatici estremi saranno sempre più frequenti. Come testimoniato dai recenti avvenimenti che hanno scosso la penisola, anche i Paesi più ricchi e benestanti saranno costretti a confrontarsi con situazioni di questo tipo. Il rapporto di Generation Hope, sviluppato grazie al modello climatico dei ricercatori della Vrije Universiteit Brussel, ha mostrato che circa 774 milioni di bambini nel mondo vivono i duplici effetti del rischio climatico e del cambiamento climatico. Questo perché povertà, disuguaglianze e crisi climatica si intrecciano e si influenzano a vicenda.

I nativi digitali, quindi, si approcciano al mondo del lavoro con la consapevolezza di non avere le stesse opportunità dei loro genitori e dei loro nonni e con il timore di giungere al limite dopo il quale non sarà più possibile tornare indietro. La prospettiva di un cambiamento e di un ripensamento alle politiche di contrasto alla crisi climatica non è solo una necessità, ma un dovere per garantire un futuro alle generazioni più giovani. Una prospettiva del genere non ha uguali nella storia recente e rende i nativi digitali una generazione completamente allo sbaraglio. Gen Z e Millennials, quindi, saranno costretti a confrontarsi con degli ostacoli che non hanno contribuito a creare (o almeno in quantità minore) e che influenzeranno la loro carriera e il loro futuro in modo determinante.

CREDITI

Copertina ideata e realizzata per Lo Sbuffo da Davide Magni

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