Il caso Manisera e la difficoltà di parlare di mafia nel giornalismo

8 giugno 2022. Sara Manisera, giornalista indipendente e autrice del libro “Racconti di schiavitù e lotte nelle campane”, si dirige verso Cutro, in provincia di Crotone, per ritirare un premio giornalistico (la prima edizione premio nazionale “Diego Tajani”). Di fronte alle scolaresche del posto, al magistrato antimafia Nicola Gratteri e allo studioso Antonio Nicaso, Manisera pronuncia un discorso che allarma il comune di Abbiategrasso, in provincia di Milano, e le procura una querela.

La vicenda in breve

Da quel palco della sala polivalente intitolata a Falcone e Borsellino, Manisera decide di tenere un discorso in cui pronuncia la seguente frase: «Ad Abbiategrasso ho visto le mafie entrare nel comune, negli appalti pubblici, e soprattutto dentro il cemento. Perché alle mafie una cosa che piace tanto è il cemento, i centri commerciali, costruire, costruire e costruire…».

Questa frase, che ha suscitato la reazione immediata della giunta comunale di centrodestra e del sindaco Cesare Nai, è stata estratta da un discorso molto più ampio che non aveva lo scopo di offendere le istituzioni milanesi. Nel suo intervento, Manisera non citava i nomi dei membri delle istituzioni del luogo perché il suo scopo era quello di parlare del tanto dibattuto tema delle “mafie nel Nord”. Nel citare il comune di Abbiategrasso non c’era la volontà di accusare i suoi esponenti politici di collusione mafiosa, ma di constatare l’esistenza di infiltrazioni mafiose anche nel Nord del Paese. Il territorio di Abbiategrasso, infatti, non è nuovo a queste dinamiche oscure e usarlo come esempio permette di far comprendere che il germe della mafia è riuscito a infiltrarsi ovunque.

Qual è il peso di una denuncia?

Non molto tempo dopo il fatidico discorso, il comune di Abbiategrasso ha deciso di querelare la giornalista per diffamazione aggravata, suscitando l’immediata reazione dell’Ordine dei giornalisti e di altre associazioni che si battono per la difesa della libertà di stampa e dell’informazione libera. Secondo la giunta comunale Sara Manisera avrebbe «leso gravemente la reputazione delle città […] affermando che questi (gli organi comunali) siano controllati dalle mafie e che gestiscano gli appalti in accordo con queste». Da qui la decisione di appellarsi alla macchina di giustizia prima di ancora di organizzare un incontro pubblico per chiarire il significato reale delle parole della giornalista, come la prassi solitamente richiede.

Certo è che se questo incontro fosse avvenuto non ci sarebbe stato bisogno di procedere a una causa legale (e quindi spendere i soldi dei cittadini), perché un’interpretazione diffamatoria della dichiarazione di Manisera può avvenire solo se le sue parole vengono estrapolate dal contesto e mal interpretate. E questo è ciò che effettivamente è successo.

Intraprendere una causa legale in modo così avventato comporta dei costi anche per i giornalisti che, in questi casi, si trovano costretti ad affrontare degli ostacoli e delle forme di pressione che impedisce loro di svolgere correttamente il loro lavoro. Manisera ha avuto la fortuna di poter contare sul patrocinio gratuito di “Ossigeno per l’informazione”, un ufficio legale che si sostiene attraverso i finanziamenti di una NGO inglese, Media Defence. Grazie a questa parternship, è stato possibile affiancare molti giornalisti (tendenzialmente freelance, proprio perché mancano della difesa di un editore forte) che si sono trovati nella stessa situazione di Sara Manisera.

Il problema delle cause di diffamazione

La vicenda di Manisera non è l’unica nel panorama giornalistico: sono infatti sempre più frequenti gli episodi di cause legali per diffamazione, che vedono coinvolti i professionisti della comunicazione contro personaggi politici, aziende o organi istituzionali. Come spiega Andrea Di Pietro, avvocato coordinatore di “Ossigeno per l’informazione”, nell’intervista del podcast “Sentiti Libera”, il sistema giudiziario italiano si presta a questa forme di querele temerarie perché non sono previste delle conseguenze a chi si appella allo strumento giudiziario in maniera preventiva (e a volte anche eccessiva). Di conseguenza, per chi mette in moto le cause giudiziarie non ci possono essere sconfitte (almeno nei termini di continuità lavorativa) e non è raro che prevalga un atteggiamento qualunquista nei confronti delle vittime.

A subire le conseguenze, sia in caso di vittoria che di sconfitta, sono sempre i giornalisti, che rischiano di vedere compromessa la propria carriera, di pagare spese legali molti consistenti e, soprattutto, di non ottenere alcun risarcimento. Nella maggior parte dei casi, infatti, anche di fronte all’assoluzione dal reato i giornalisti non hanno diritto al rimborso.

Qual è lo scopo di una causa così?

Per indicare il tipo di azione legale in cui si denota una grossa sproporzione di potere tra il soggetto che fa causa e il soggetto che viene accusato, si utilizza l’espressione di “Slapp (acronimo di Strategic lawsuit against public participation, ovvero “causa strategica contro la partecipazione pubblica”). Lo scopo dietro queste cause legali è quello di intimidire l’accusato e porlo in una condizione di impossibilità a portare avanti la propria professione. Seppur nella maggior parte dei casi è lo stesso pubblico ministero ad archiviare il processo, queste forme di intimidazione hanno un impatto non indifferente su chi le riceve, sia in termini economici che in termini di benessere mentale e lavorativo.

Un altro esempio di Slapp è quello che vede scontrarsi Roberto Saviano e Giorgia Meloni. Il motivo dell’accusa risale al 2020, quando lo scrittore si era esposto definendo Giorgia Meloni e Matteo Salvini dei “bastardi” per come avevano condotto le campagne contro le ong. Per quanto Saviano sia un personaggio conosciuto è inevitabile constatare l’enorme sproporzione di risorse che lo separano da Giorgia Meloni, che nel frattempo è diventata la seconda carica più importante dello Stato.

In Italia è vietato informare?

Compito di ogni istituzione dovrebbe essere quello di garantire il diritto a informare e a informarsi. Il 2022 è stato un anno nero per la libertà di stampa nel mondo. L’Italia è riuscita a risalire di ben diciassette posizioni (secondo quanto emerge dal rapporto di «Reporter senza frontiere»), ma la situazione nel nostro Paese non è ancora ottimale. In Italia la libertà c’è ed è uno dei pilastri della democrazia ma di casi come quello di Sara Manisera ne esistono fin troppi.

La presenza della criminalità organizzata minaccia il lavoro di molti giornalisti, ma la libertà di stampa è messa in crisi anche dagli altri meccanismi di censura che vengono messi in atto con il totale consenso delle istituzioni. Intimidire chi si batte per la verità ostacola la libertà di stampa e, in casi come quello di Manisera, anche la lotta contro le mafie. Le parole di Manisera si basavano su fatti fondati, che dimostrano la pervasività del fenomeno mafioso. Ostacolare in questo modo il suo lavoro e quelli di altri che, come lei, si battono affinché la giustizia prevalga va a vantaggio della criminalità.

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