Il “South Working” nell’Italia dell’emigrazione

Uno dei maggiori dibattiti pubblici in questi anni nel nostro Paese è la cosiddetta “fuga di cervelli”, il fenomeno per cui i giovani italiani si trasferiscono all’estero alla fine del percorso universitario per cercare maggiore fortuna e stabilità lavorativa, cercando di avviare la propria carriera tramite opportunità che spesso non trovano nel luogo d’origine. Tale fuga non avviene solo tra Italia ed estero ma anche tra regione e regione; la pandemia però potrebbe essere stata l’inizio dell’inversione di rotta.

La fuga di cervelli da Sud a Nord

La stessa fuga si verifica all’interno degli stessi confini nazionali; secondo una ricerca de «Il Sole 24Ore», infatti, sono circa 200mila i giovani meridionali che hanno deciso di emigrare al Nord spinti dalle stesse motivazioni di coloro che decidono di attraversare la frontiera: migliori opportunità di carriera e stabilità economica. Un brain drain non indifferente per il Mezzogiorno considerando che a spostarsi sono laureati e studenti universitari (immatricolati in atenei fuori regione) dalle aree meridionali e insulari verso il centro-Nord. Il saldo della migrazione intellettuale pesa gravemente sul Sud Italia ed è evidente se si considerano le percentuali di studenti e laureati in uscita prima della pandemia. Ad esempio, nel 2018 in Campania il tasso di uscita ha raggiunto il 23%, in Sardegna il 36%, in Campania il 43%, in Calabria il 53%, in Sicilia il 61% e in Basilicata addirittura l’81%.

Questo fenomeno sembra però che abbia subito un cambiamento di rotta o almeno un rallentamento grazie alla pandemia Covid-19, scoppiata a febbraio 2020, che ha costretto la maggior parte dei fuori sede al rientro al proprio domicilio e allo svolgimento di tutte le attività quotidiane in versione digitale e a distanza. Nasce da questo contesto obbligato il South Working, definito dal dizionario «Treccani» come “lavoro da remoto per aziende fisicamente collocate nell’Italia del Nord, svolto da casa o in regime di smart working da persone che abitano nell’Italia del Sud”.

Da “smart working” a “south working”

Secondo il sociologo Domenico De Masi è merito della pandemia aver abbattuto il problema del luogo di lavoro, non ha più importanza essere a dieci metri o cento chilometri dai propri colleghi e il periodo del Covid-19 ha accelerato la consapevolezza che ci stiamo dirigendo verso un mondo sempre più digitalizzato e destrutturato grazie alle nuove tecnologie.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione per il mondo del lavoro che da allora si sta svolgendo in maniera ibrida, non sempre in ufficio, ma anche da casa. Il south working si configura quindi come un “effetto collaterale” dello smart working, il quale è ormai un modello che sembra essere diventato il futuro e la nuova normalità per la maggior parte delle aziende. Il 77% di esse infatti lo ha adottato e il 46% è disposta a garantire dai due ai cinque giorni alla settimana in remoto. Secondo un’indagine svolta dall’Associazione Italiana per la Direzione del Personale (AIDP), il 66%  delle aziende italiana ritiene che i benefici dati dal lavoro a distanza superino di gran lunga le criticità tanto da incentivarlo anche dopo il “ritorno alla normalità”.

Il south working, quindi, è l’espressione massima dell’effetto più duraturo e stravolgente della pandemia dal punto di vista socio-spaziale: il lavoro a distanza. Grazie ad esso infatti scompaiono le distanze e i vincoli spaziali che conducono alla concentrazione geografica del lavoro, delle opportunità, delle ricchezze e, per forza di cose, anche della popolazione e il cui esito è la creazione di squilibri economici-territoriali.

I  numeri del south working sono limitati e le caratteristiche socio-demografiche dei south workers sono ben precise: si tratta di soggetti giovani con un livello di educazione mediamente elevato e che hanno alle spalle esperienze di studio e lavoro in altre regioni o all’estero. Anche per queste loro specificità rappresentano una risorsa preziosa per il Mezzogiorno italiano, non solo dal punto economico, ma anche per l’apporto sociale che deriverebbe dalla loro presenza a lungo termine.

Il “South Working” dagli occhi delle aziende

La nuova tendenza del south working non attrae solo i lavoratori ma anche le aziende che vedono in questo fenomeno una potenziale riorganizzazione strutturale. Secondo uno studio condotto da «Forbes», infatti, due aziende su tre sarebbero pronte ad aprire “hub” nel Sud Italia, ovvero spazi di coworking o veri e propri uffici aziendali dislocati lontano dalla sede centrale settentrionale, per favorire il lavoro da remoto a tutti i dipendenti che non desiderano emigrare in altre regioni. I motivi principali che porterebbero a questa scelta non sono solo legati alla promozione del territorio meridionale (il 61% della aziende è spinta da questa ragione) ma anche alla possibilità di reclutare una maggiore varietà di figure professionali (48,9%), di ridurre i costi (35,5%) o di aprire filiali dirette (61%)

Dall’altro canto bisogna considerare che questi progetti per riscontrare successo devono partire da alcuni prerequisiti imprescindibili come un’adeguata infrastruttura digitale, spazi confortevoli e adatti al lavoro da remoto e collaborazioni tra le filiali e le sedi centrali, così come uno sforzo congiunto con Atenei e pubblica amministrazione.

La strada da percorrere per realizzare queste realtà è essere ancora lunga ma la sua promozione potrebbe essere fondamentale per accelerare le tempistiche. Uno dei primi presidi è stato South Working Castelbuono, nato a febbraio 2021 in questo centro medievale in provincia di Palermo, grazie alla sinergia di privato, pubblico e volontariato e in collaborazione con Social Green Hub, un’associazione impegnata a promuovere la digitalizzazione e la crescita del territorio nel rispetto dell’ambiente. Si tratta del primo centro che accoglie south workers sia originari del luogo che non, offrendo loro spazi di lavoro pubblici e funzionali, agevolazioni in pausa pranzo e ricettività, qualità della vita e proposte per il tempo libero. L’obiettivo è garantire una serie di servizi per chi sceglie la località come sede della propria carriera a distanza, promuovendo e riqualificando la cittadina.

Il south working è nato dal basso ma ha delle grandi vedute anche coerenti con gli obiettivi del Pnrr, che si inserisce dentro il programma Next Generation Eu: il contrasto allo spopolamento dei borghi e il favoreggiamento dell’incontro di domanda e offerta di lavoro all’interno del territorio nazionale. Se lo smart working proseguirà, allora anche il south working non può fare altro che crescere e diffondersi, sopratutto se sostenuto da aziende, lavoratori e associazioni ed enti locali che ne favoriscono lo sviluppo e la realizzazione.

 

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