La schiavitù esiste e milioni di bambini ne sono vittima

Dare una quantificazione esatta del fenomeno della schiavitù minorile risulta difficile a causa della mancanza di dati precisi, tuttavia, secondo le stime attuali si ritiene che circa dieci milioni di bambini nel mondo si trovino in una condizione di maltrattamenti così gravi e violenti da meritare l’etichetta di “schiavitù”.

La giornata mondiale contro la schiavitù infantile

“Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite.” È con queste parole che Iqbal Masih, un giovanissimo bambino pakistano, cercava di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale riguardo la piaga della schiavitù infantile. Il suo passato lo aveva tristemente reso testimone del fatto che la violenza e la crudeltà non conoscono confini e che il fenomeno dei lavori forzati può abbattersi su chiunque.

Iqbal Masih e la lotta alla schiavitù infantile

A soli quattro anni, infatti, Iqbal era stato venduto a un fabbricante di tappeti e da lui costretto a turni di lavoro infiniti e condizioni di vita alquanto precarie. A nove anni, uscendo di nascosto dalla fabbrica, riuscì a unirsi ad altri bambini e partecipare a una manifestazione del Bonded Labour Liberation Front (BLLF). Una volta tornato nella fabbrica di tappeti, nonostante le violenze subite, Iqbal si rifiutò di continuare a lavorare e la sua famiglia fu presto costretta ad abbandonare il villaggio a causa delle continue minacce. Da questo momento in poi, grazie al sostegno della BLLF, Iqbal poté continuare a studiare e cominciò a viaggiare nel mondo per portare la sua testimonianza di ciò che, ancora oggi, molti bambini sono costretti a subire.

16 aprile: giornata internazionale contro la schiavitù infantile

La libertà di Iqbal non era però destinata a durare molto, perché di lì a poco, alla giovanissima età di dodici anni, sarebbe morto in un attentato. Le dinamiche della sua morte sono ancora da chiarire, ma in sua memoria il 16 aprile di ogni anno si ricorda la Giornata internazionale contro la schiavitù infantile. A ventotto anni dal suo omicidio, le idee e il coraggio di Iqbal vivono ancora nella voce di chi si batte per un mondo più equo e più giusto.

La schiavitù moderna: un fenomeno in crescita

Il fenomeno della schiavitù moderna coinvolge all’incirca cinquanta milioni di persone nel mondo tra donne, uomini e bambini. Questi, oltre a subire condizioni di vita degradanti, sono costretti a lunghe giornate di lavoro pesante o a matrimoni forzati. Secondo il rapporto Global  estimates of modern slavery: Forced labour and force marriage (“Stime globali della schiavitù moderna: lavoro forzato e matrimonio forzato”) negli ultimi cinque anni il fenomeno è andato incontro a un incremento, che avrebbe visto coinvolgere circa dieci milioni di persone in più rispetto a quanto succedeva nel 2016.

Le diverse facce della schiavitù

La schiavitù moderna, quindi, si manifesta principalmente in due grandi fenomeni: quello del matrimonio forzato, con circa ventidue milioni di vittime (perlopiù donne e ragazze, anche con età inferiori ai quindici anni), e il lavoro forzato, con circa ventotto milioni di vittime nel mondo. Anche i migranti, che in molti casi si trovano sprovvisti di qualsiasi mezzo economico e legale, sono particolarmente vulnerabili a queste forme di abuso di potere.

Per quanto il fenomeno schiavista evochi immagini lontane, è una realtà più attuale che mai e più diffusa di quanto si pensi. Infatti, non esiste paese nel mondo immune dal fenomeno della schiavitù, tanto che si calcola che oltre il 52% del lavoro forzato ha luogo nei paesi dal reddito medio o alto.

Il fenomeno dei bambini-soldato

Il traffico di esseri umani

I bambini sono anche vittime ideali per il traffico di esseri umani. Questa forma di schiavitù comprende anche fenomeni come lo sfruttamento sessuale a scopi commerciali o pornografici, l’accattonaggio forzato, i traffici di sostanze illecite e il coinvolgimento dei più giovani nei conflitti armati. Dal 2016 ad oggi è stato documentato l’uso di “bambini-soldato” in conflitti armati in oltre diciotto paesi solo nel continente africano.

I bambini-soldato

Per “bambino-soldato” si intende una persona minore di diciotto anni che fa parte di qualunque forza armata o gruppo armato, regolare e irregolare che sia, e a qualsiasi titolo. All’interno di questa etichetta vengono anche comprese le ragazze reclutate per fini sessuali o per matrimoni forzati. Anche in questo caso è difficile presentare un numero esatto dei bambini coinvolti in queste situazioni, perché mancano delle stime ufficiali. È stata però documentata una crescita consistente del numero di bambini-soldato nel mondo tra il 2012 e il 2020, forse nell’ordine delle centinaia di migliaia di unità.

Secondo le stime di UNICEF, attualmente, ci sarebbero oltre 300,000 mila bambini coinvolti in trenta conflitti in varie zone del globo e usati come combattenti, spie, facchini, cuochi o mero “intrattenimento”. La vita dei minori nelle zone di guerra è già appesa a un filo a causa dell’estrema fragilità del contesto in cui sono costretti a crescere, ma spesso è aggravata da situazioni in cui i minori stessi diventano fautori di quella violenza che li colpisce. In questo caso i bambini, che possono avere anche un’età inferiore ai dieci anni, sono vittime e carnefici allo stesso tempo, in quanto parte di un circolo senza via di uscita in cui si fa fatica a capire di chi è effettivamente la colpa.

Esiste un futuro per i bambini-soldato?

Come si diventa bambini-soldato

Nella maggior parte dei casi il reclutamento dei minori avviene attraverso un allontanamento forzato dalle famiglie. I bambini vengono strappati dalle loro case o dalla scuola, imprigionati e poi liberati su ricatto. A essere liberati, infatti, sono solamente coloro che decidono di entrare a far parte di una milizia. Questi giovanissimi subiscono un indottrinamento, che li trasforma in macchine da guerra. Tra le file dei soldati, i bambini imparano come impugnare un’arma, come usarla, come uccidere nel modo più efficace, come torturare, rubare e compiere altre scorrerie. Uscire da questi circoli non è impossibile, ma è difficile. Il rilascio può avvenire a seguito di trattative internazionali, come in alcuni casi successi in Sud Sudan, dove il ruolo di UNICEF è stato fondamentale. La liberazione può avvenire attraverso fughe individuali, che però mettono a rischio la vita dell’individuo, o attraverso altre dinamiche che permettono ai più giovani di ritornare alla civiltà.

La (dura) reintegrazione

Il percorso di reintegrazione non è sempre facile perché, a volte, anche le stesse famiglie dei ragazzi rapiti sono restie a accoglierli nuovamente nelle proprie case. I traumi che vivono, infatti, sono così profondi da indurre un cambiamento radicale nelle loro personalità e il ritorno a casa, sempre se questo avviene, non è quasi mai pacifico. È quello che ad esempio è successo a Christian (nome di finzione), che all’età di tredici anni è stato rapito da un gruppo armato in Sud Sudan e costretto a compiere atti brutali. Una volta tornato a casa, all’età di quindici anni, Christian è stato respinto da suo padre e accolto dal fratello della sua defunta madre. “Quando è tornato era selvaggio. Non capiva nulla. Perfino io, suo zio, avevo paura di lui. Da quando ha cominciato ad andare a scuola ha imparato molte cose ed è cambiato molto. Ora saluta la gente, sorride. È un grande cambiamento.”

Un problema mondiale

Il tema della brutalità dei conflitti sui bambini e l’impatto che eventi simili hanno sulla loro crescita è ritornato in auge con lo scoppio della guerra in Ucraina. Nel mondo ci sono però tante altre guerre poco conosciute che hanno una visibilità mediatica minore, ma le stesse brutali conseguenze. In queste settimane, lo scoppio di vecchie rivalità in Sud Sudan e l’acuirsi delle tensioni internazionali rischiano di incrementare il numero di bambini arruolati. Come ha dichiarato Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children: “I bambini non causano o iniziano le guerra, ma è innegabile che siano le vittime più grandi e più vulnerabili di ogni conflitto.”

 

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