Arte e fascismo: un incontro mai pienamente realizzato

È possibile un discorso obiettivo sugli artisti di regime? Si, ed è anche necessario

In Italia, quando si parla di fascismo c’è sempre il pericolo di sfociare nell’apologia e d’incontrare ostilità, anche quando le tesi sono sostenute da fatti e documenti indiscutibili. Questo avviene anche per l’arte che si sviluppa prima e soprattutto durante il Ventennio, dal Futurismo al gruppo Novecento, passandro per i Valori plastici e la cosiddetta Scuola Romana, senza dimenticare la Metafisica. Tuttavia, ogni movimento ha le sue peculiarità e una minore o maggiore vicinanza con il sistema a vocazione totalitaria instaurato da Benito Mussolini.

Il Futurismo, ad esempio, nasce nel 1909 con un manifesto in francese pubblicato su Le Figaro di Parigi. Tutto il movimento storico si sviluppa quando Mussolini era nelle fila del Partito Socialista, prima che ne venisse espulso per via del suo interventismo durante la guerra. Secondo molti, il movimento marinettiano si conclude nel 1916, con la morte in battaglia di Umberto Boccioni e di Antonio Sant’Elia, così come si conclude con il passaggio di Carlo Carrà e Ardengo Soffici agli stilemi metafisici di Giorgio De Chirico e plastici di Mario Broglio. In realtà il movimento prosegue nella sua ricerca e nella sua necessità di correre parallelamente e insieme alla modernità che avanza.

Si entra nell’ormai superata definizione di “secondo futurismo”, che vede gli artisti dialogare con le altre avanguardie europee. Enrico Prampolini guida una serie di artisti italiani verso un’arte internazionale ma allo stesso tempo fedele ai principi del 1909. Il Futurismo, quindi, non può essere considerato un movimento che produce arte “fascista”, per due motivi. Il primo, come vedremo, è che non esiste e non è mai esistita un’arte pienamente “fascista” semmai al massimo un’architettura fascista. Secondo, il Futurismo ha appoggiato i Fasci di Combattimento nelle elezioni del 1919 solo in veste di movimento non artistico, con un’azione estetica più che politica. Il progetto naufragò quando il Movimento Fascista divenne partito nel 1921 e marciò su una Roma inerme nell’ottobre del 1922. Pertanto, parlare di artisti asserviti al regime è un errore storico che condanna le ricerche artistiche di quel periodo.

Il dibattito sull’arte fascista

Achille Funi, Le villeggianti, 1920, olio su tela, Museo del Novecento, Milano.

Quando il Movimento Fascista divenne partito, artisti e gerarchi cominciarono a chiedersi quali movimenti artistici potessero essere ricondotti al fascismo. Nel 1922 Ardengo Soffici scrisse che:

Queste tendenze nel momento presente […] sono due: la tendenza reazionaria e quella rivoluzionaria […]. Quale di esse riterremo meglio rispondente alla nostra teorica o alla nostra pratica? […]. Il Fascismo […] non è un movimento di reazione, o di regresso […] e non è il nemico della modernità. Il Fascismo che è un movimento rivoluzionario, ma non sovversivo o estremista non tende al capovolgimento dei valori […]. Tanto l’una che l’altra delle due tendenza devono essere rigettate da noi con uguale risolutezza.

Soffici non spiega cosa fosse l’arte “fascista” così come nessun intellettuale negli anni successivi. Solo Ciattini, nel 1923 su Critica Fascista, cercò di incanalare l’arte nel suo tempo, dichiarando che:

Come era esistita un’arte conservatrice, neoborghese, anarchica, così il fascismo avrebbe espresso la propria concezione e le proprie espressioni artistiche.

In che modo quindi gli artisti pensarono di contribuire alla creazione di un’arte fascista? Philip Cannistraro sostiene la teoria, valida, del pluralismo estetico, un’idea che considera la vivacità creativa italica di un’arte anti soggettivista che, all’esterno, doveva dare l’impressione della libertà che vigeva nel regime di Mussolini.

Proprio Mussolini, nel 1926, partecipò a una mostra del gruppo Novecento guidato da Margherita Sarfatti in occasione della quale affermò che, in quanto Stato costruito in senso corporativista, esiste una gerarchia tra questo e gli artisti, i quali sono dipendenti al servizio dello Stato. Infatti, dal 1923, il partito scandì l’iter espositivo che un artista doveva seguire: dalle Mostre Sindacali regionali alla Biennale di Venezia, passando per la Biennale e la Quadriennale di Roma. Sempre nel 1926, Mussolini si recò all’accademia di Belle Arti di Perugia, dove affermò la necessità di produrre un’arte che rendesse gloria all’Italia fascista.

La politica di Mussolini non è quindi quella di creare artisti che possano glorificare il regime, bensì il contrario. Il sistema corporativista, su cui si basava lo Stato fascista, veniva utilizzato anche per la cultura. Non in senso opprimente perché Mussolini e, soprattutto, Giuseppe Bottai, erano a conoscenza della vivacità creativa italiana che, tuttavia, andava regolamentata secondo le norme del neonato Stato.

L’Italia ha avuto i suoi grandi artisti che, in diverse epoche, hanno servito il re o il committente di turno con la propria arte. Lo stesso doveva avvenire nella “Terza Roma” fascista i cui valori erano rappresentati dal partito.

Gli artisti, quindi, ognuno con la propria arte, dovevano rispondere alla causa fascista sviluppando un’arte che glorificasse i valori della nuova Italia. Uno Stato consapevole della propria tradizione e della propria cultura che non ha sconfessato la ricerca artistica ma ha dettato la strada da percorrere.

La posizione di Antonio Rapisarda

In merito alle dichiarazioni del Duce, lo scrittore Antonio Rapisarda nel 1923 propose la sua idea di arte al servizio della politica. Lo scrittore, o l’artista, possono essere definiti fascisti se ne seguono i canoni fondamentali: amore per la nazione, rispetto dei principi di gerarchia e ripudio della lotta di classe. L’obiettivo era quello di sviluppare un’arte favorevole ai principi etici del PNF – di cui gran parte degli artisti avevano la tessera, necessaria per esporre – facendo dell’artista un elemento perfettamente inserito nel sistema politico, sociale e soprattutto culturale in vigore.

Nel 1927 la rivista Critica Fascista concluse dichiarando che le espressioni dell’arte

dovevano essere giudicate dalla medesima tendenza presente nel campo politico, verso costruzioni più solide, più ampie, più forti, sulla linea della grande tradizione dell’arte autoctona italiana, da riscoprirsi vivissima pur fra le sovrapposizioni e le incrostazioni di tutti i movimenti artistici stranieri.

Data questa dichiarazione è evidente che il Futurismo degli anni Venti non può essere dichiarato di regime, considerate le sue influenze straniere, soprattutto derivanti dalla Germania e dalla Russia costruttivista. Gli artisti, quindi, non avrebbero sviluppato la propria arte secondo soggettivismi e culture psicoanalitiche, bensì sulla fedeltà del mito fascista. Al di là di questo, tutto doveva essere libera creazione dove lo stile e la tendenza erano secondarie rispetto ai problemi fascisti.

Per Bottai, direttore della rivista, definire l’arte fascista riguardava considerare la capacità dell’artista di fare propri i temi della politica del partito. Lo stile era una questione interna alle rispettive discipline, ossia pittura, scultura, architettura e arti applicate. Simbolo di questa discussione è Mario Sironi che, dagli anni Trenta ha fatto della pittura murale la sua missione, che solo il fascismo gli ha permesso di risolvere e raggiungere.

L’ipotetico accordo sopra un’unica formula d’arte era impossibile. Al pittore o al romanziere il regime chiedeva una precisa ed espressa volontà di liberare l’arte sua dagli elementi soggettivi e arbitrari, e da quella speciosa originalità che è voluta e rinutrita dalla sola vanità.

A partire da Sironi , tutti gli artisti hanno garantito il loro contributo al regime. La differenza di espressioni artistiche diverse e di diversi gruppi o movimenti presenti durante il Ventennio dimostrano la presenza di un’arte che può essere considerata fascista nel senso della pluralità di manifestazioni e interpretazioni del regime e non di puro asservimento come accadeva nell’Unione Sovietica.

Il caso di Novecento

Virgilio Guidi, In tram, 1923, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.

La questione dell’arte di Stato, come è stato anticipato, si presenta già nei primi giorni del regime. Margherita Sarfatti, vicina a Mussolini, nel novembre del 1922 organizzò la mostra “Sette pittori del Novecento” insieme al gallerista Lino Pesaro. In questa occasione, oltre a portare avanti le tesi estetiche di un ritorno all’ordine avanzate fin dalla fine della guerra da Mario Broglio; la Sarfatti si rese fautrice di un’arte che potesse essere veicolo delle mozioni del nuovo Stato. L’anno seguente, la Sarfatti avrebbe portato i suoi pittori alla Galleria Pesaro di Milano dalla quale lo stesso Mussolini prese le distanze negando ogni sostegno politico a qualsiasi tipo arte di Stato in favore della totale libertà d’espressione.

Nel suo discorso Mussolini si dichiarò vicino dal punto di vista generazionale agli artisti in mostra, sottolineando le analogie tra la sua attività politica e il loro modo di fare arte. Poi, dato che l’arte è una manifestazione dello spirito, un buon capo di governo non può costruire una nuova Italia dimenticando il lavoro dei suoi artisti, concluse dicendo:

lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all`arte di Stato, poiché l’arte rientra nella sfera dell`individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale.

Il suo governo, quindi, era amico degli artisti e non ne opprimeva la produzione. Nonostante questa dichiarazione che sorprendente, la Sarfatti continuò con il lavoro di promozione della nuova arte, cercando di renderla più italica possibile. Infatti, nel 1924 ottenne una sala alla Biennale (prima dei Futuristi, che vi arrivano nel 1926 ma nel padiglione Sovietico per motivi economici di quest’ultimi); nel 1926 a Milano inaugurò la “I mostra del Novecento italiano”. In questa occasione, oltre a presentare gli stessi artisti di tre anni prima, Margherita Sarfatti ottenne l’appoggio di Cipriano Efisio Oppo, anche lui sostenitore di un’arte di Stato.

La fine di ogni arte di Stato

Tuttavia, fu proprio Oppo a sancire della fine delle velleità della Sarfatti. Dopo il successo del 1926, Sarfatti aveva intenzione di trasformare la mostra del Novecento in una rassegna periodica annuale con il sostegno del Duce. Oppo, consigliere di Mussolini, fece slittare l’arrivo di Sarfatti a Milano, dato che l’ambiente romano da lui guidato era ostile al movimento nato in Lombardia. Alla Biennale del 1928, dove Oppo era consigliere, il gruppo non ottenne la sala, mentre nel 1929 Sarfatti fu costretta a fare la II mostra del Novecento a Milano.

Proprio in questa occasione avvenne la rottura finale. Sarfatti continuava a insistere nella sua volontà di fare di Novecento un’arte fascista e il 9 luglio 1929 fu lo stesso Mussolini a risponderle con una lettera eloquente:

Gentilissima Signora, leggo un articolo nel quale ancora una volta voi tessete l’apologia del cosiddetto ‘900, facendovi alibi del Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più energica e di tale mio sentimento, giungerà segno oggi stesso ai direttori dei due giornali. Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo, fu il vostro ‘900, è ormai inutile ed è un trucco. Il Fascismo più prudente e meno messianico, ha ipotecato soltanto 60 anni, non tutto il secolo! Del quale ancora 70 anni sono da trascorrere.

Il problema arte-fascismo, dal dopoguerra a oggi, è stato considerato in maniera schematica e aprioristica. L’arte del Ventennio è stata considerata al servizio del regime, prima ancora di chiedersi se realmente queste fossero le intenzioni. L’anti-fascismo di fronda ha condannato tutto quello che è stato realizzato dal 1920 al 1945, senza contestualizzare e considerare il sistema statale in vigore. Oppo, isolando il gruppo Novecento, ha garantito la sopravvivenza di tutte le ricerche estetiche, evitando di monopolizzare le intenzioni della Sarfatti che di Mussolini era amante. Una scelta, questa, che ha premiato, in parte, la memoria di quegli artisti che del fascismo non erano servitori ma furono ingranaggi del sistema.


Fonti

artavanguardia.altervista.org

Fabio Benzi, Arte di Stato durante il regime fascista: una storia di fallimenti nel segno dei meccanismi del “consenso”, “Arti e culture visive”, vol 3, n. 1, 2018, pp. 162-185.

Philip Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, pp. 50-59.

exibart.com

Mario Sironi, Manifesto della pittura murale, in Scritti editi e inediti a cura di Ettore Camesasca, Milano, Feltrinelli 1980, pp. 155-157.

Alessandra Tarquini, Storia della Cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 92-95.

 

 

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