Il giornalismo di moda approda su TikTok

What I wear today: moda su Tiktok

A chi non è capitato di scorrere la For You Page di TikTok e ritrovarsi davanti a influencer di moda che mostrano il proprio abbigliamento? È nato così, quasi per caso, il trend del “What I wear today” – cosa indosso oggi – eppure ha inevitabilmente condizionato l’immaginario collettivo.

Ho appena visto un tiktok. Bene, so cosa indossare”. Questo meccanismo che si innesca automaticamente nella nostra mente sta sviluppando nella società attuale delle aperture verso nuovi modi di fare moda, e non solo moda, che fino a ora rimanevano tra le passerelle delle sfilate, nelle riviste dell’edicola o nei settimanali a cui si era abbonati. Ora, c’è una nuova porta sul mondo. Bisogna decidere se aprirla o rimanere chiusi nella propria stanza.

La parola come medium

L’intervento di Roland Barthes, nel Novecento, ci offre una riflessione su cosa sia la Moda e su quale sia il medium privilegiato attraverso cui si diffonde. Il saggista francese afferma che la Moda sia un meccanismo tipico della società di massa, un meccanismo esemplare dei diversi e numerosi modi in cui essa tende a suscitare il desiderio della gente, diffondendolo e controllandolo a dismisura.

A permettere ciò è solo il linguaggio verbale che emerge mediante quei mezzi tipici della cultura di massa come pubblicità, giornalismo e televisione. L’abbigliamento viene inteso come una realtà individuale, attraverso la quale l’individuo attualizza quell’istituzione generale e sociale che sta nel costume. 

Immagine o parola?

Negli anni Cinquanta e Sessanta, contrariamente a chi sosteneva che era soprattutto l’immagine a costruire gli assetti della società della cultura e della comunicazione di massa, Roland Barthes difende, ancora una volta, il linguaggio verbale come l’unico vero strumento in grado di mettere in opera il complesso meccanismo di costruzione e diffusione del desiderio della moda. 

La nostra non è affatto una civiltà dell’immagine: è anzi una civiltà della scrittura.

La parola, dunque, che passa attraverso il giornale, diventa un sistema aperto, disponibile ad accogliere le relazioni tra moda, vestito e individuo. 

Il ritorno dell’immagine

Negli anni Duemila il valore della parola perde d’importanza nella costruzione del significato di Moda a favore della sola immagine, medium prediletto per affascinare lo spettatore. Il linguaggio visivo, con la sua giusta rappresentazione estetica, permette, infatti, una più efficace concettualizzazione simbolica.

Di qui il ruolo determinante giocato dall’immagine, e quindi dalla fotografia, e il sottinteso parallelismo tra significato di moda e artificio, sia della fotografia che del cinema. Il messaggio della moda si esprime attraverso immagini, corpi, spazi, luoghi e nel flusso di informazioni mediatiche. Il significato perde il carattere di massa e acquista un carattere diretto e personale con i messaggi e con i mezzi che determina e attraversa, facendo così nascere nuove identità sociali e culturali. 

È questo il senso che sembra trasmettere il nuovo giornalismo alla moda degli anni Zero. Le riviste patinate non guardano più dall’alto, ma anzi, si fidano del vestire dei passanti e lo stampano in prima pagina con autorità. Si legittima l’individualità, non esiste più cos’è giusto, cos’è sbagliato e cos’è da cambiare, ma solo il “comunque tu sia, c’è un look che fa per te”. 

I nuovi sistemi-moda

Inizia così la rivoluzione delle telecomunicazioni del XXI secolo. I blog avvicinano il consumatore alle aziende e alle testate, influenzando direttamente il settore moda. YouTube  permette videosharing di sfilate e fashion film, i telefonini smartphone diventano i nuovi sostituti di macchine fotografiche e videocamere che permettono una connessione continua e una trasmissione immediata di informazioni ed emozioni. 

Allo stesso tempo, il contesto socio culturale si fa più individuale, libero e anarchico, frammentato in stili differenti da interpretare e personalizzare. La moda non è mai stata più attiva e viva, cambia e si adatta rapidamente agli stili della strada e li mostra in passerella, due mondi vicini e quasi identici ormai, e porta all’esasperazione il concetto di “tendenza”. Le imprese di moda, players del mondo multinazionale e finanziario, seguono i criteri economici per guadagnare e non più l’ispirazione e il coraggio per essere creativi. 

Il mondo narrato dietro il prodotto

La marca totale degli anni Novanta oggi, per affermarsi ed espandersi, si dematerializza e si svincola dal prodotto per costruire un mondo immaginario fatto di valori profondi, i soli in grado di conquistare l’affetto e la fiducia del consumatore stabilendo relazioni durature. Non è più un prodotto a fare la differenza ma il mondo “narrato” da esso, la mondanità di quel prodotto. 

La moda vive sempre più come sistema complesso e intertestuale, come rimando reticolare tra i segni del corpo rivestito e come costruzione/decostruzione costante dei soggetti che ne negoziano, ne interpretano o ne ricevono il senso. 

Il selfbranding condensa nel logo della marca una serie di contenuti e valori che attingono all’esperienza personale o di gruppo, esprimendo il sistema di relazioni sociali e di valori condivisi da una subcultura. 

Così, dal Sistema della moda di Barthes a oggi, ne è passata di acqua sotto i ponti. Non abbiamo più a che fare con un solo sistema ma con una pluralità di sistemi-moda che si integrano e si influenzano reciprocamente. La contemporaneità definisce, infatti, una complessità di discorsi sociali che coinvolgono l’abbigliamento in senso di habitus, termine ideale per esprimere sia l’idea di abito che l’idea di abitare.

Inizia così, con il nuovo millennio, un nuovo tipo di comunicazione per la moda che nel tempo è riuscita a creare un proprio linguaggio, unico e diverso da qualsiasi altro settore. 

I fashion blogger

I blog dagli anni Novanta rappresentano un’efficace forma di comunicazione che oggi, grazie ai contenuti visualizzabili in modo facile e veloce, in forma cronologica e pubblicati periodicamente in formato multimediale, ha preso sempre più piede nel mondo della comunicazione e in particolare nel mondo della moda.

Dietro al fashion blog c’è, per la maggior parte delle volte, un appassionato di moda, una rivista oppure un professionista del settore. Di solito, guadagnare seguito e considerazione significa entrare in comunicazione diretta con le masse, ottenere un “potere comunicativo” non indifferente ed esercitare così un’influenza sull’industria del settore.

Ed è un po’ in questo modo che il giornalismo di moda approda su TikTok grazie agli influencer. La differenza, però, sta nel fatto che non sempre chi ci fornisce una recensione di una sfilata o di una tendenza d’abbigliamento stia parlando in qualità di persona professionalmente formata. La nostra ottica dovrà, quindi, essere critica, capace di distinguere un’opinione o un gusto personale e una recensione invece basata su studi specializzati nel settore. Ciò non toglie che chiunque tra noi possa esprimere un proprio parere, purché lo faccia rispettando la posizione di semplice spettatore.

Nuovo pubblico, nuovi giornali

Con la nascita di nuove fonti di comunicazione, cresce però anche il numero dei messaggi in circolazione e, infine, cosa forse più importante, il numero dei consumatori. Molte persone che prima vivevano ai margini del consumo culturale entrano così a pieno titolo nel numero dei consumatori: in molti casi, però, si tratta di un consumo indirizzato verso prodotti di massa, facili e dai contenuti imperniati su di un intrattenimento leggero e spensierato. Ed è forse proprio su questa scia che si collocano i nuovi trend di TikTok, sopra menzionati, adatti a raccogliere una rete ampia di spettatori, soprattutto nella fascia giovanile. 

È interessante inoltre notare come in molti Paesi, ma non in Italia, si è diffusa una precisa differenziazione tra giornali tabloid o popolari e giornali broadsheet o d’élite. Mentre i primi si indirizzano a un mercato di massa, i secondi sono perlopiù destinati a un pubblico più colto e scolarizzato. I primi, con una circolazione molto superiore, si incentrano sullo scandalismo, il pettegolezzo, lo sport. Hanno molte immagini a colori e spesso in prima pagina riportano immagini scandalistiche o a sfondo sessuale.

I secondi hanno un tono più posato, si focalizzano sui problemi della comunità, con ampie pagine politiche e di commento. I giornali popolari riprendono spesso il linguaggio e i temi della televisione di intrattenimento, i giornali d’élite si definiscono, invece, per il loro linguaggio più sofisticato e, a volte, più complesso.

Eticità e solidità professionale anche sui social

In questo contesto, la domanda che sempre più sta creando dibattiti, soprattutto negli Stati Uniti, è la seguente: è legittimo parlare di giornalisti, fashion editor come influencer dei nuovi social? Una chiave di lettura, o per lo meno uno spunto, che può muovere la nostra riflessione sono le parole che Sciascia Gambaccini, ex direttrice moda di «Vogue Italia», «Interview», «Marie Claire», «Jane» e «, che oggi vive e lavora negli Stati Uniti, rilascia: 

Fino a pochi anni fa era ritenuto molto scorretto pensare che una fashion editor potesse promuovere un prodotto, ma parlo di un periodo in cui i redattori, sia in Italia che negli Stati Uniti, avevano uno stipendio fisso e un contratto buono. Oggi non è più così. Ricordo che negli anni ’90 un collega fu rimproverato per aver partecipato a un noto programma televisivo, perché editoria e tv “dovevano rimanere separati”. Ora i vari mondi si stanno mescolando: del resto ci sono fashion editor che riescono a svolgere il loro compito sui social in modo credibile. Se lo fanno con etica e solidità professionale io non ho problemi a fidarmi del loro giudizio, ben sapendo quali sono le dinamiche alle spalle.

 

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