La Biennale di Venezia 2022

Da sabato 23 aprile a domenica 27 novembre si è svolta la ciquantanovesima edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte, comunemente conosciuta come la Biennale di Venezia. La rassegna, che si sviluppa tra i Giardini e l’Arsenale della città veneta, dal titolo Il latte dei sogni, è stata curata da Cecilia Alemani.

Come prima donna italiana a rivestire questa posizione, mi riprometto di dare voce ad artiste e artisti per realizzare progetti unici che riflettano le loro visioni e la nostra società. 

Cecilia Alemani

Infatti, la mostra include 213 artisti, di cui 191 donne, provenienti da cinquantotto paesi del mondo. Sono solo alcuni numeri che vanno ad affiancare quello, importante, del pubblico che ha visitato gli spazi. La Biennale ha concluso con oltre 800mila biglietti venduti, il 35% in più dell’edizione del 2019. I titoli di ingresso emessi per i giovani e gli studenti sono 239.276, ossia il 30% del totale, mentre il 59% del pubblico proviene da un paese estero. Sono numeri importanti per una rassegna nella fase post-Covid, che inducono gli addetti ai lavori ad alcune riflessioni.

L’edizione ha visto la partecipazione di nuovi paesi, come le Repubblica del Camerun, Namibia, Nepal, Sultanato dell’Oman e Uganda; mentre la Repubblica del Kazakhstan, Repubblica del Kyrgyzstan e Repubblica dell’Uzbekistan partecipano per la prima volta con un proprio Padiglione. L’Italia, alle Tese delle Vergine, destina il suo padiglione ad un unico artista, Gian Maria Tosatti. Un evento unico che di seguito sarà approfondito.

Come ogni evento, anche questa Biennale porta via con sé critiche e lodi. Da cose già viste, come l’installazione di terra all’Arsenale o alcune opere figurative, alle video installazioni al limite della comprensione. Ma, considerati anche i numeri riportati sopra e la presenza di alcuni artisti e padiglioni di una certa importanza, il bilancio può ritenersi positivo.

Parola alla curatrice

La Mostra Il latte dei sogni prende il titolo da un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011) – spiega Cecilia Alemani – in cui l’artista surrealista descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé. L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme a molte altre figure della trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano.

La Mostra nasce dalle numerose conversazioni intercorse con molte artiste e artisti in questi ultimi mesi. Da questi dialoghi sono emerse con insistenza molte domande che evocano non solo questo preciso momento storico in cui la sopravvivenza stessa dell’umanità è minacciata, ma riassumono anche molte altre questioni che hanno dominato le scienze, le arti e i miti del nostro tempo. Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi?

Questi sono alcuni degli interrogativi che fanno da guida a questa edizione della Biennale Arte, la cui ricerca si concentra in particolare attorno a tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra.

Il Padiglione della Nigeria, Arsenale.

Il progetto curatoriale della Alemani ha eseguito una rottura e contemporaneamente un allineamento con il mondo della cultura, e non solo, di oggi. Molti artisti, infatti, hanno realizzato le loro opere immaginando un mondo post umano, considerando le attuali condizioni politiche, economiche e sociali. La pandemia e la guerra, con le loro conseguenti e attuali crisi, hanno posto gli artisti di fronte ad un bivio. Allagare la ricerca oppure serrare i ranghi e proteggere il loro lavoro; hanno scelto la prima via, quella più insicura ma che si è rivelata giusta.

In un mondo diviso tra ottimismo tecnologico e la paura della totale presa di controllo da parte della macchine, gli artisti hanno scelto la condizione umana come unico credo, con una differenza. Infatti, molte delle opere esposte nell’Arsenale, discutono la visione eurocentrica dell’uomo bianco in quanto simbolo della ragione, per cercare nuovi mondi. Al posto dell’uomo bianco, quindi, abbiamo la presenza di diverse culture che sono alla base di mondi abitati da esseri ibridi e molteplici i quali sono portatori di nuove realtà. L’Alemani ha decentralizzato e de-europizzato l’arte e la cultura, presentando opere di artisti africani e asiatici i quali, spesso, rifuggono dalla dominazione tecnologica.

Mentre tutto fuori subisce la dominazione del digitale e della trasformazione, negli spazi veneziani la curatrice ha recuperato l’altro e l’altrove, i cui corpi sono presentati in una trasformazione positiva. La tradizione africana e asiatica sopravvive al progresso globalizzato, anche se, inevitabilmente, subiscono la “macchinizzazione” dell’universo. Infatti, molti artisti celebrano la fine dell’antropocentrismo attraverso l’unione di umano e non umano; altri, invece, riscoprono le proprie identità locali.

In testa, in questo processo di trasmutazione, c’è Simone Leight, vincitrice del Leone d’Oro, accompagnata da Belkis Ayon, Luiz Roque e Delcy Morelos, le quali dominano l’attenzione nel percorso di allestimento dell’Arsenale.

Alcuni padiglioni

Passeggiando idealmente dall’Arsenale ai Giardini, è possibile passare in rassegna alcuni dei padiglioni più significativi. A partire da quello dell’Arabia Saudita, dove una gigantesca e viva installazione di foglie dipinte invade tutta la sala: l’opera, la cui presenza è innegabilmente di impatto, ha voluto rappresentare parte della mitologia saudita, portando in Italia curiosità e stupore. L’aspetto storico, culturale e ludico, invece, è stato rimarcato dal Kosovo: in una stanza molto piccola, il visitatore ha potuto letteralmente camminare su secoli di tradizione. Infatti, tutta la sala è completamente rivestita di tappeti decorati con la storia del piccolo paese dei Balcani, spesso al centro di dispute politiche. Proseguendo, l’Albania ha presentato una sintesi della sua pittura figurativa, mentre l’Islanda, attraverso l’opera di Sigurður Guðjónsson, ha presentato l’enigmatico flusso che esiste nella natura che ci circonda, con una installazione video d’effetto.

Il Padiglione della Francia.

Indimenticabile è il Padiglione Malta con l’opera di Arcangelo Sassolino: l’artista, infatti, ha reinterpretato la pala d’altare di La Valletta di Caravaggio, Decollazione di San Giovanni Battista, come un’installazione scultorea cinetica. L’ambientazione si sposta dalla storia alla contemporaneità e ha invitato lo spettatore ad attraversare uno spazio immersivo e ipnotico, portandolo a riflettere sulla situazione dei giorni nostri.

Andando ai Giardini, subito si è catturati dall’installazione della Svizzera. In una sala completamente buia, una luce intermittente rossa guida lo spettatore tra parti di un grande corpo. Questo, che deriva dalla tradizione carnevalesca, contemporaneamente alla luce, invita il fruitore a interrogare i propri sentimenti sollecitati dalla perdita di orientamento nella realtà e nella storia. Uscendo dal padiglione, l’occhio non può non cadere sul bellissimo Padiglione Russo, chiuso per i motivi ormai noti. La Germania, così come la Spagna, si focalizzano sulla trasformazione architettonica dei propri spazi espositivi. Sale bianche quindi, che i tedeschi sfondano per portare il padiglione alla sua forma originaria del 1909, mentre gli spagnoli rimodulano allineandolo con i vicini Belgio e Olanda.

Infine, il pubblico è rimasto estasiato dal Padiglione della Francia. Yasmina Reggad, Sam Bardaouil e Till Fellrath, curatori dell’esposizione, hanno indagato le motivazioni che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, hanno portato a realizzare film militanti. L’artista Zineb Sedira ha trasformato il Padiglione in uno studio cinematografico, offuscando i confini fra finzione e realtà, fra memoria personale e memoria collettiva. Egli ha utilizzato i processi cinematografici come il remake e la mise en abyme per trarre ispirazione da molti generi diversi. Comprensibile, quindi, come il pubblico sia rimasto estasiato da questa ambientazione ricca e coinvolgente.

Il Padiglione Italia

Storia della Notte e Destino delle Comete è il titolo del progetto espositivo a cura di Eugenio Viola e realizzato da Gian Maria Tosatti: “Il curatore ha scelto di proporre un progetto che funzionasse come un potente statement sulla contemporaneità, in grado di restituire una lettura coraggiosa del presente e dare all’Italia una voce unica”. La prima tappa del percorso in questa storia dell’industrialismo mutilato italiano, avviene in una dimensione spazio-temporale altra. Una bacheca e una macchina per timbrare il cartellino sono oggetti che citano una presenza attiva umana che ora non esiste. La monotonia scandisce i passi dei visitatori, i quali osservano oggetti industriali e macchinari improduttivi se non della loro stessa memoria. L’uomo non c’è, esistono solo obsolescenza e ricordo.

Il Padiglione Italia

Come avviene nella seconda sala, dove dal soffitto pendono tubi d’aspirazione collegati a niente. Questi, un tempo necessari per garantire la salubrità dell’aria degli operai, ora servono a determinare lo spazio come faceva Eliseo Mattiacci. Salendo una scala in ferro, tipica di questi ambienti, si giunge in un appartamento borghese. Tutto è reso nel minimo dettaglio in stile anni Sessanta, dalle mattonelle con motivi geometrici, alla porta e al citofono dell’ingresso, così come l’arredamento della stanza da letto. Anche questa svuotata di ogni comodità che ricordi il passaggio dell’uomo. Si tratta, idealmente, di una fabbrica a conduzione famigliare oppure della stanza del custode, il quale doveva garantire la sicurezza dello stabile. Il terzo capannone è occupato da macchine per la lavorazione tessile, lasciate come erano dove erano e da scaffali con faldoni contenenti fatture.

L’ordine e la pulizia inducono a pensare che gli operai siano fuori a pranzo ma, in realtà, l’attività è in pausa da decenni. L’ultima sala conclude il percorso fisico e concettuale. Una ipotetica zona di carico dei camion per la distribuzione è invasa da un mare calmo e nero dove ci sono delle lucciole. Andando con la memoria agli scritti di Pierpaolo Pasolini degli anni Settanta, Tosatti conclude il suo intervento con un messaggio positivo. Invita, infatti, l’uomo a considerare gli spazi della natura e a pensare come questa se ne riappropri. L’industria italiana, ormai, non è più quella del boom economico, ma ciò che ci resta sono le sue strutture, le sue macchine e le sue carte. Tosatti, prende tutto questo e gli da una forma scientifica, come un archeologo che recupera il passato e lo musealizza.

Per una conclusione

Tosatti prende gli oggetti del passato e li ricontestualizza all’interno del circuito della Biennale. Trasforma vecchie macchine in sculture e, in maniera ipertestuale, cerca di trovare loro una collocazione nel presente e nel passato. La rinuncia all’oggetto, come avviene spesso nella sua arte, si traduce in costruzione di una memoria, umana e tecnologica. Infatti, dietro il progresso industriale c’è la civiltà umana che Tosatti restituisce combinando ambiguità spaziale e senso costante di instabilità.

Concordando con Stefano Chiodi, il quale ha definito la Biennale ortopedica, pedagogica e didascalica, la rassegna di quest’anno può ritenersi positiva per impatto artistico e mediatico. Certo, molte volte durante la visita venivano in mente riferimenti se non addirittura quella consapevolezza di “già fatto” ma, Padiglione Italia in testa, la Biennale di quest’anno ha rivelato quale sia il livello attuale dell’arte contemporanea. Un’arte che fa fatica ad approfondire e che si limita a evidenziare le differenze.

 


Fonti

Cartella Stampa consultata durante la visita del Padiglione Italia

finestresullarte.info

labiennale.org

Stefano Chiodi, Ortopedica, pedagogica, didascalica, in “Antinomie”, 17 giugno 2022.

 

Crediti

Tutte le immagini sono a cura del redattore

 

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