Riscatto e povertà: due romanzi italiani

Interrogarsi sulla povertà è un procedimento tanto delicato quanto complesso. Infatti spesso questa non si esprime solo in termini di fame e disoccupazione, ma si traduce anche in casi di disagio sociale e disuguaglianza nelle opportunità e nei diritti. Ancora più delicato è parlare di povertà collegandosi al mondo delle arti e alla possibilità di accedervi.

Spesso la cultura si fa portavoce di battaglie non ascoltate, può essere strumento di denuncia e di riscatto. I mangiatori di patate di Van Gogh, le canzoni di Fabrizio De André, i romanzi di Charles Dickens: la cultura è costellata di rappresentazioni di povertà e privazioni. Nel panorama letterario contemporaneo italiano vi sono due romanzi che si distinguono per la precisione quasi chirurgica con cui analizzano le disuguaglianze sociali ed economiche: la serie de L’amica geniale di Elena Ferrante e L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito.

Un esempio dagli Stati Uniti: Stoner di John Williams

La letteratura presenta anche storie di personaggi che attraverso la cultura riescono a risollevarsi da una vita di sofferenza, come in Stoner (1965) dello scrittore statunitense John Edward Williams. William Stoner nasce in una povera famiglia della campagna del Missouri, dove lavora fino a diciannove anni. Si iscrive alla facoltà di agraria all’Università del Missouri, finché, durante il corso di Letteratura Inglese (che segue perché obbligatorio) resta incantato dal sonetto n.73 di Shakespeare e si appassiona alla letteratura. Decide così di cambiare il corso dei suoi studi e della sua vita:

L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e  pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.

Elena Ferrante, L’amica geniale

La serie de L’amica geniale di Elena Ferrante

L’amica geniale (2011) è il primo romanzo della serie letteraria omonima scritta da Elena Ferrante e pubblicata per Edizioni e/o. La trama è nota ormai in tutto il mondo, anche grazie all’adattamento televisivo prodotto da HBO con il titolo My Brilliant Friend. La serie percorre le vite e l’amicizia di Lila e Lenù, dall’infanzia all’età adulta, sullo sfondo della Napoli e dell’Italia del secondo dopoguerra. Le due bambine fanno amicizia presto, attirate l’una dall’intelligenza dell’altra. Lenù è timida, riflessiva e remissiva, succube dell’intraprendenza e dell’aggressività di Lila, che sembra sempre sapere e vedere qualcosa in più rispetto a lei.

La possibilità di studiare per Lila e Lenù

Le loro strade cominciano a separarsi quando a Lila, per motivi economici, viene negato di proseguire gli studi. Il padre di Lenù invece, che fa l’usciere al comune, riesce a mettere da parte abbastanza soldi per permettere alla figlia di sostenere l’esame per entrare alle scuole medie. In seguito, grazie al sostegno della maestra Oliviero, che le passa libri e dizionari di seconda mano, Lenù si iscrive al ginnasio, e superato l’esame di maturità, otterrà una borsa di studio alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi con il massimo dei voti e intraprendendo una carriera da scrittrice. Questa separazione, non tanto fisica quanto emotiva, porta le due amiche a provare sentimenti contrastanti l’una verso l’altra: amicizia e affetto sì, ma anche invidia, risentimento e rimpianto. Lila invidia Lenù, ma allo stesso tempo desidera che abbia il successo che merita e che lei non potrà avere. Lenù, dall’altro lato, prosegue i suoi studi sentendosi sempre un quasi all’ombra dell’intelligenza mostruosa dell’amica.

Un’amicizia femminile

L’amica geniale è un libro meraviglioso che ha conquistato lettori in tutto il mondo, anche per la straordinaria forza con cui rappresenta la storia di un’amicizia femminile. Virginia Woolf, a proposito dei legami e delle relazioni con le donne, in Una stanza tutta per sé rivendica lo spazio delle donne non solo nella società, ma anche nella letteratura. I personaggi femminili sono sempre stati destinati a ruoli di nutrice, di spalla, di consigliera o di love interest del protagonista maschile di turno. Il legame sincero e profondo femminile viene escluso, non è sufficientemente importante per avere uno spazio di rappresentazione; anzi, a voler essere precisi, spesso non viene nemmeno contemplato, perché le donne devono essere nemiche delle altre donne. Elena Ferrante racconta invece di un’amicizia femminile vera, non perfetta e stucchevole, ma sfaccettata, complessa e profonda. Fra Lila e Lenù sorgono sentimenti contraddittori, spesso anche negativi, di ammirazione e di rancore per ciò che avrebbero voluto diventare e ciò che non sanno di essere: l’amica geniale l’una dell’altra.

La plebe

Fin dalla sua giovinezza, Lenù percepisce crescere dentro di sé un sentimento di inadeguatezza verso un ambiente a cui non sente di appartenere, infestato dalla violenza e dalla privazione. La capacità di osservazione di Lenù registra tutto: le botte che i padri danno ai figli, i corpi sformati delle madri, le spalle curve dal lavoro. Comprende poco alla volta di essere parte di qualcosa di sporco, viscido e da schiacciare: la plebe, come la definisce la maestra Oliviero:

“Sai cos’è la plebe?”. “Sì, maestra”. Cos’era la plebe lo seppi in quel momento, e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l’aveva chiesto. La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. La plebe era mia madre, che aveva bevuto e ora si lasciava andare con la schiena contro la spalla di mio padre, serio, e rideva a bocca spalancata per le allusioni sessuali del commerciante di metalli. Ridevano tutti, anche Lila, con l’aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo.

Una possibilità di riscatto

Lenù realizza, anche grazie all’aiuto di Lila, che ciò che sta facendo — lo studio, la scuola superiore, le letture — le stanno garantendo un lasciapassare per una vita diversa:

Segno che forse Lila aveva ragione: la gente di quella risma bisognava combatterla conquistandosi una vita superiore, di quelle che loro non potevano nemmeno immaginare.

Ma realizza anche che Lila, che si sposa ad appena sedici anni, sta rimanendo invischiata proprio in ciò che più disprezza:

Ecco Lila festeggiata dal rione, sembrava felice. Sorrideva elegante, cortese, mano nella mano di suo marito. Era bellissima. Su di lei, sulla sua andatura, avevo puntato da piccola, per sfuggire a mia madre. Avevo sbagliato. Lila era rimasta lì, vincolata in modo lampante a quel mondo, dal quale s’immaginava di aver tratto il meglio.

L’amica geniale: un racconto di emancipazione sociale

La serie de L’amica geniale è un racconto di emancipazione e riscatto, soprattutto sociale, che si svolge insieme a quella dell’Italia del secondo Novecento. Attraverso l’accesso alla conoscenza, negato a Lila, Lenù lascia finalmente il rione di Napoli nel quale è cresciuta e conosce Firenze, Pisa, Genova, Milano e Parigi. Entra in contatto con l’ambiente accademico, con le cerchie intellettuali, e, infine, con la lotta femminista degli anni Settanta, alla quale si avvicina dapprima timidamente per poi tuffarvisi con avidità. Legge Carla Lonzi, si stupisce che la conoscenza possa essere usata in quel modo, piegata al proprio pensiero. Lenù si sente libera solo quando firma il suo primo articolo e quando visita la Francia, lontana dal rione e dai fantasmi delle sue origini.

Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce

L’acqua del lago non è mai dolce è il terzo romanzo di Giulia Caminito, finalista al Premio Strega e vincitore del Premio Campiello. La protagonista è Gaia, che racconta in prima persona la sua infanzia e la sua adolescenza. Il romanzo si apre con il ritratto della madre, Antonia “la rossa”, che grida e scalcia alle prese con l’ufficio dell’ATER per ottenere una casa.

Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia, una donna con i capelli rossi che entra in una stanza e ha addosso un completo di lino.
[…]
E io è come se fossi lì, in piedi, a guardarla dall’angolo della stanza, la giudico e non la perdono.

Antonia è una madre che, con un istinto quasi animale, fa di tutto per assicurarsi la sopravvivenza sua e dei figli. É lei che tira le fila della vita di famiglia, è lei porta a casa i soldi in nero, che decide cosa sia sacrificabile e cosa indispensabile, e che trova una casa per la sua famiglia ad Anguillara Sabazia, sulle rive del lago di Bracciano.

Rabbia e violenza

Il nome di Gaia viene rivelato una volta sola, alla fine del romanzo, in modo quasi antifrastico rispetto alla sua vita raccontata fino a quel momento. Gaia è una persona che non conosce la felicità, e che nemmeno la contempla per se stessa. È una persona che viene alimentata dalla rabbia e dall’invidia, che subisce una violenza dopo l’altra. La prima violenza su Gaia la compie sua madre Antonia, quando le taglia maldestramente i capelli con una forbice lasciandole scoperte le orecchie che i compagni di scuola giudicano gigantesche e sgraziate. Ma alla violenza lei risponde con la violenza, rompendo il ginocchio al compagno che la prende in giro con una racchetta.

Il lago

Il lago è una presenza costante, una massa scura attorno a cui gravitano le vicende personali e relazionali di Gaia. È risaputo che l’acqua del lago è dolce, ma per Gaia no: è amara, ha il sapore della rabbia e del rancore che crescono dentro di lei. La sua furia emerge più volte all’interno del romanzo:

“Ci hai mai pensato all’acqua? Dicono acqua dolce, ma è una bugia. Questa acqua ha il sapore della  benzina, quando avvicini l’accendino prende fuoco”. 

La responsabilità di Gaia

Su Gaia viene scaricata la pressione della madre, che vede nell’unica figlia femmina la possibilità di un riscatto sociale ed economico:

L’unica figlia femmina deve saper studiare, eccellere, andare all’università, diventare medico, ingegnere, entrare nella finanza, pubblicare romanzi e soprattutto leggere, compulsivamente, senza  possibilità di tregua.

Gaia non può leggere i frivoli romanzi che leggono le sue compagne, deve leggere libri “veri”. Deve ricordare che, se va al liceo classico, “la scuola dei ricchi”, ci va perché le è concesso e ha la responsabilità di adempiere al suo dovere.

Ho creato un calendario, su ogni giorno della settimana c’è segnato quello che devo ripassare, da ciò che abbiamo studiato al primo anno fino all’ultimo, dai Babilonesi a Hitler, dal capoluogo del Molise alle regole del DNA, dall’aoristo a Carducci, non deve esserci falla, spiraglio, a qualsiasi cosa mi verrà chiesta dovrò dare risposta.

Le privazioni di Gaia

Diverse volte all’interno del romanzo Gaia fa riferimento a tutte le privazioni, le mancanze, a tutto ciò che ancora deve raggiungere facendosi strada con le unghie:

E come già mi è accaduto scorrono nella mia testa le immagini delle fatiche e delle dispute, le mie disperazioni e ambizioni, ciò che di me non viene mai rispettato e capito, la biblioteca e le minacce, pagine su pagine di pagine per pagine, i sorrisi di mia madre mentre ripete: melologo, melos e logos, musica e parole, la frangetta della bibliotecaria Tiziana, la lista dei libri senza i quali non sei nessuno, tutto quello che ho dovuto leggere lasciando ad altri i libri da passeggio, da svago, le risate, le ore di studio e le grida di mio padre e di mia madre che si azzuffano, i libri tenuti sulle ginocchia sul treno e in bagno, il sole che tramonta senza che io sia potuta uscire e i voti che salgono, scendono, che mi giudicano.

E ancora:

Li immagino come un plotone d’esecuzione: prima o poi tutti i libri non letti mi spareranno.

L’invidia di Gaia

Gaia accetta questa responsabilità con spirito di abnegazione e sottomissione, salvo poi covare un forte risentimento per il marchio che la povertà le ha cucito addosso, che non può strapparsi e che la fa sentire sempre un gradino sotto gli altri:

Della mia vita a casa non parlo con loro, quando si lamentano della madre che ha sbagliato regalo prendendo una maglietta a righe o della bicicletta che volevano rosa e non viola, io annuisco, ma come biscia sta pancia a terra la mia invidia latente, non si fa vedere, la coltivo con cura, la tengo buona alle soglie dell’intestino, nutrendola quando riesco, coprendola con la speranza che avere due amiche sia più importante dell’essere quella da meno delle tre. 

Un confronto tra i due romanzi

L’amica geniale e L’acqua del lago non è mai dolce sono due storie legate da un filo sottile, di quelli invisibili ma difficili da spezzare. Non solo ci sono delle scene parallele, ma due figure materne giganti e opprimenti, e la promessa di un riscatto riuscita solo in parte.

Ne L’amica geniale più volte compaiono le due protagoniste chine sui libri — quando da piccole leggono insieme Piccole donne, quando studiano insieme il latino e quando Lila regala a Lenù i libri di scuola nuovi. Nel romanzo di Caminito, Gaia e Antonia sfogliano con ammirazione il nuovo dizionario comprato per l’inizio del liceo, e assaporano la dolcezza della parola melologo, una parola aulica e lontana, che ha il sapore del riscatto e contiene la promessa di un cambiamento.

La vendetta di Gaia

Ma l’Italia di Gaia — quella dell’inizio del secondo millennio, alle soglie della crisi — non è l’Italia del boom economico di Lenù: non sempre lo studio ripaga, non sempre c’è spazio per il lavoro intellettuale. Gaia ha creduto nella promessa dell’istruzione, nella promessa di un riscatto e di un cambiamento all’interno di una società che ingoia tutto, come le acque del lago, senza lasciare increspature sulla superficie. Ma alla fine, dopo aver scelto Filosofia all’università per vendetta e ripicca, “Era troppo semplice iscriversi a lingue, a lettere, a scienze politiche, bisognava trovare flagello, eccedere, pescare dal mare il pesce con più spine e ingoiarlo a bocca aperta”, e Antonia le chiede a cosa le serva questa laurea se non riesce a trovare un lavoro, lei risponde: niente.

Due storie di riscatto?

L’acqua del lago non è mai dolce non è una storia di riscatto, ma al contrario mette in discussione il concetto stesso di riscatto. Lo studio non salva Gaia, e nemmeno i suoi tentativi di amicizia o di amore romantico. Al contrario, queste esperienze fanno eccedere la rabbia che cova dentro di sé, la spingono sempre più in basso, più in profondità nelle acque scure del lago. Lenù invece vede nella cultura la sua salvezza, e forse ha ragione. Ma non solo non riesce mai del tutto a staccarsi dal fantasma delle sue origini, dall’ombra di Lila, dalla misoginia e dal sessismo del rione, ma si scontra anche con il disprezzo per i meridionali che trova a Pisa. È una gabbia in cui sia Lenù che Lila sono intrappolate e da cui cercano di liberarsi: l’una scavandosi una nicchia con la pazienza dell’acqua, l’altra facendosi strada con la potenza del fuoco.

FONTI

Elena Ferrante, L’amica geniale, Edizioni e/o, 2011

Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani, 2021

John Williams, Stoner, Mondadori, 2021

Iltascabile.com

sentieriselvaggi.it

rollingstone.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.