La morte di Mahsa Amini accende le proteste in Iran

Nonostante gli arresti, le morti e le repressioni continue, in Iran le proteste che sono seguite all’uccisione della giovane Mahsa Amini, arrestata perché portava male il velo, vanno avanti da settimane. Le manifestazioni, con epicentro Teheran, rappresentano la più grave e potente critica alle autorità religiose e politiche del paese dal 2019.

Il fatto

Era il 13 settembre quando Mahsa Amini, giovane curda iraniana di ventidue anni in vacanza con la sua famiglia a Teheran, venne arrestata dalla polizia morale perché portava male il velo. Per le donne il velo in Iran è obbligatorio in pubblico dalla rivoluzione del 1979. Dal 15 agosto un nuovo decreto varato dal presidente Ebrahim Raisi ha irrigidito ulteriormente le norme di costume. In Iran è infatti importante sottolineare che la differenza tra la sfera pubblica e la sfera privata è totale. Se il privato è il luogo dove è permessa più libertà e, in qualche modo, anche la sperimentazione, il pubblico è al contrario il luogo del decoro e dell’umiltà.

Dopo l’arresto da parte delle forze dell’ordine, la giovane è stata portata al centro di detenzione di Vozara, da dove è uscita poco dopo in un’ambulanza. Mahsa è morta tre giorni dopo in ospedale. La famiglia e le organizzazioni umanitarie sono sicure: la colpa è degli agenti della polizia morale che, picchiando la ragazza, le hanno provocato un trauma cranico e poi il coma. Per la polizia, invece, la Amini aveva un problema cardiaco. Il 17 settembre a Saqqez, nella parte ovest del Kurdistan (regione nella zona nord-est dell’Iran), si sono svolti i funerali. È proprio la città natale di Mahsa il luogo in cui le proteste che infuocano il paese da settimane sono ufficialmente iniziate. Davanti alla morte di una giovane ragazza, alcune manifestanti si sono infatti tolte il velo in segno di disdegno.

Zan, zendegi, azadi

Davanti alla morte di una giovane iraniana, uccisa dalla politica religiosa di un Paese repressivo, molti sono scesi in strada. Molte donne, moltissime giovani, ma anche tanti uomini. A quasi un mese ormai dal loro inizio, le proteste non sembrano fermarsi o affievolirsi. Le manifestazioni si sono concentrate soprattutto nelle scuole superiori e nelle università. Il centro è Teheran, la capitale, ma la rabbia dei protestanti non risparmia il resto del Paese, arrivando a toccare trentuno province iraniane. Il grido che si alza dai cortei è quello di “zan, zendegi, azadi”, cioè “donna, vita, libertà”. 

Mahsa Amini è diventata una martire, simbolo dell’oppressione del governo iraniano ai danni delle donne. I protestanti hanno visto la sua morte come un campanello d’allarme e sono quindi scesi in piazza. Le manifestazioni che ne sono scaturite hanno sicuramente un sapore anti-religioso. La morte di Mahsa è stata infatti causata dalla violenza della polizia religiosa iraniana, che impone di rispettare in pubblico alcune rigide regole di “decoro”, tra cui il velo. Le proteste sono però soprattutto politiche. I manifestanti si battono contro un governo autoritario conservatore. I conservatori di Ebrahim Raisi hanno infatti vinto le elezioni politiche del 2021 in Iran, spodestando i liberali dal governo. Di rilievo è sicuramente anche il fatto che la vittoria degli ultra-conservatori sia stata favorita dal ritiro americano dall’accordo sul nucleare, fatto che ha rotto ogni speranza di riavvicinamento con l’occidente. In quest’ottica, il velo, nonostante resti ovviamente un simbolo religioso, si identifica soprattutto come un simbolo politico, che marca l’esistenza un governo conservatore nel paese.

Simbolo della generalizzazione delle proteste è il fatto che queste siano diventate anche proteste etniche: non bisogna dimenticare che la 22enne apparteneva ad un’etnia minoritaria in Iran, quella curda. Sull’onda di queste manifestazioni, diverse proteste sono nate infatti anche in Baluchistan, nel sud-ovest del paese (quindi la regione all’estremo opposto del paese rispetto alla zona curda). La zona comprende un’altra minoranza presente in Iran, quella dei Baloch.

Le morti e l’interruzione di Internet

Le proteste infiammano il paese nonostante il lavoro di repressione della polizia iraniana, instancabile e violento. Le forze dell’ordine cercano infatti di reprimere le manifestazioni, utilizzando la forza. Molti manifestanti sono morti, uccisi soprattutto dall’utilizzo di proiettili veri (compresi pallini da caccia e di metallo) sulla folla. Il 25 settembre, dopo solo dieci giorni di proteste, Amnesty International aveva dichiarato la morte di 57 persone. I dati sono aumentati: più recentemente il IHRNGO (Iran Human Rights) ha dichiarato l’uccisione di almeno 185 persone. Numeri così alti non si registravano dalle proteste del 2019, scoppiate a causa del rialzo del prezzo del carburante fino al 200%. Nonostante le proteste iniziarono come pacifiche, presto diventarono violente, come molto violenta fu la repressione. Si contano oggi più di 300 morti.

Il governo cerca di minimizzare la portata delle proteste, dicendo che queste vengono ingigantite dall’informazione occidentale. Lo stesso governo ha però utilizzato parole pesanti nei confronti nei manifestanti, etichettandoli come “nemici dell’Iran”. L’Āyatollāh Seyyed ʿAlī Ḥoseynī Khāmeneī, la massima guida religiosa, ha anche dichiarato sul suo account twitter che le manifestazioni sono state causate da paesi esteri, come gli Stati Uniti. L’Āyatollāh ha infatti scritto: “Voglio dire che chiaramente la ribellione nelle strade in Iran è un piano disegnato negli Stati Uniti, dai loro mercenari, dal regime sionista e da alcuni iraniani traditori che vivono all’estero”. Nel frattempo le repressioni continuano. L’Iran sta mettendo in atto un vero e proprio isolamento mediatico: il governo interrompe internet a più riprese e impone blocchi ad alcuni dei maggiori social media, primo fra tutti Instagram.

L’altra faccia della repressione: gli arresti

Accanto alle morti, la repressione prende anche la forma degli arresti: sono molti infatti i manifestanti arrestati dalla polizia iraniana. Gli arresti sono molti e improvvisi, pochi eseguiti sui manifestanti in piazza, durante le proteste. Il lato più preoccupante del fenomeno è infatti che questi avvengano al di fuori delle manifestazioni stesse. Donne e uomini vengono presi all’improvviso dalla polizia iraniana, prelevati a scuola, a casa o sui posti di lavoro, e portati via, spesso su furgoni senza targa. Ci sono testimonianze di genitori che dicono di aver impedito ai figli di andare a scuola per paura degli arresti e altre testimonianze di famiglie che dicono di non avere più contatti con i loro cari dopo che questi sono stati portati via. La spiegazione data dal viceministro dell’interno, Seyed Mirahmadi, è stata che gli arresti hanno lo scopo di arrivare velocemente ai processi e, in seguito, alle condanne, così da disincentivare le proteste.

L’utilizzo di programmi di intelligenza artificiale permette e aiuta la repressione. Tramite diversi algoritmi e applicazioni, spesso importanti dall’occidente, il governo dell’Iran ha infatti identificato i manifestanti e ha poi provveduto ad arrestarli a casa loro. In un intervento sul colonialismo digitale, Leila Belhadj Mohamed, giornalista e esperta di geopolitica, ha spiegato come questo avvenga. “La maggior parte dei manifestanti non sono stati arrestati in piazza”, dice. “Sono stati arrestanti nelle loro case perché, tramite la tecnologia del riconoscimento facciale utilizzata insieme a questa nuova carta d’identità, in circolazione in Iran dal 2020, è stato possibile rintracciare i manifestanti”.

Il Velo in Iran: religione, costume, politica o repressione?

Le manifestazioni in Iran si animano in queste settimane di donne che si tolgono il velo e lasciano i capelli liberi di essere visti in pubblico. È una grande rivolta per il Paese, ma per capirne il significato simbolico bisogna risalire al 1979, l’anno in cui lo Scià è fuggito e l’Ayatollah Khomeini ha instaurato una Repubblica Islamica. Dopo un periodo in cui le donne scendevano in strada a capo scoperto, l’arrivo di Khomeini ha decretato l’obbligo per le donne di portare il velo. Dopo la rivoluzione islamica, le autorità hanno infatti iniziato a imporre un codice vestimentario composto non solo dal velo (obbligatorio dal 1983) ma anche da vestiti larghi che nascondessero la figura. È ovvio quindi che l’obbligo abbia una chiara motivazione religiosa. È infatti da ricordare nel Corano non è possibile trovare riferimenti all’obbligo di velarsi, ma diversi scritti consigliano alle donne di coprire le parti belle, primi fra tutti i capelli, in segno di dignità e decoro pubblico.

L’obbligo del velo ha però anche, come anticipato, una valenza politica. Nel ’79 venne imposto per sottolineare la fine del regime dello Scià e per marcare l’opposizione all’Occidente del nuovo governo islamista instauratosi. In pochi anni, il velo in quanto simbolo cambiò radicalmente: dall’essere un sintomo della liberazione dal regime dello Scià, diventò l’esempio più visibile del governo radicale islamico. Avendo portato l’obbligo del velo al rango di legge, infatti, la polizia morale ha un controllo quasi totale sul corpo della donna o sulla sua possibilità di esprimersi liberamente in pubblico, pena l’arresto, una multa o, peggio, la flagellazione.

L’obbligo del velo e la sua criminalizzazione sono sempre stati discussi in Iran, sia dalla società che dallo stesso clero. Mentre i riformisti votano infatti per abolirlo, gran parte dei conservatori lo vede come un utile strumento di controllo della società (soprattutto della parte femminile di questa). Il motivo di questa discussione è ideologico. In Iran si trova infatti un gran numero di conservatori e di conservatrici che ritiene fondamentale la distinzione tra pubblico e privato. Se nel privato si è più liberi, nel pubblico si mantiene il decoro e l’umiltà: il mondo fuori deve essere ordinato. Questo si scontra con le tendenze più riformiste che, al contrario, votano per una Repubblica più flessibile e meno rigida, anche nella sfera pubblica.

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