Frankenstein: un mito della letteratura

Esistono personaggi talmente memorabili da entrare nella coscienza comune, proprio perché memorabile è la loro origine. Frankenstein è, infatti, uno dei miti della letteratura ed è entrato nell’immaginario collettivo anche grazie al cinema e alla televisione.

La nascita di Frankenstein, chiamato anche il moderno Prometeo, è nota: la storia comincia nel 1816, conosciuto come “l’anno senza estate”, in cui la diciannovenne Mary Shelley si trova con Percy Shelley, Lord Byron, Claire Clairmont e John Polidori in un’elegante villa, la Villa Diodati, a Cologny, in Svizzera. Chiusi in casa a causa della pioggia, decidono di fare a gara scrivendo storie di fantasmi. Nonostante siano in quattro, soltanto Mary riesce nell’impresa; eppure, inizialmente, sembra non avere idee.

Una nascita memorabile

Ritratto di Mary Shelley di Richard Rothwell (1840)

L’ispirazione arriva all’autrice dal mondo scientifico e filosofico: Mary Shelley cresce fra le idee, le discussioni, e in particolare sente Byron e Shelley discutere sulla natura del principio vitale, sulle teorie di Darwin, e viene a conoscenza anche degli studi di Luigi Galvani sull’elettricità intrinseca a un corpo. Quindi si potrebbe animare un corpo dopo averne assemblate le parti? A questo pensa Mary quando, a mezzanotte passata, non riesce ad addormentarsi. Davanti agli occhi le si presenta in modo vivido la scena di un pallido scienziato, chino sul corpo, che ha appena creato una creatura e che si muove in modo impacciato e fremente. Terrorizzato, scappa e si rifugia in camera sua, dove poi prende sonno. Viene svegliato da un inquietante presentimento e i suoi occhi si trovano catapultati in quelli gialli e interrogativi della creatura. È questa immagine, che tornerà identica nel romanzo, a svegliare Mary che, terrorizzata, realizza di aver finalmente trovato la sua storia: quel che ha terrorizzato lei, terrorizzerà anche gli altri.

La visione

È Mary stessa a raccontare la genesi del suo capolavoro nell’introduzione che scriverà all’edizione del 1831:

Vidi – con gli occhi chiusi, ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato. Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà. Doveva essere spaventoso, perché spaventoso sarebbe stato l’effetto di ogni sforzo umano di scimmiottare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. Il successo avrebbe terrorizzato l’artista, che sarebbe fuggito colmo d’orrore dall’orrido manufatto. Avrebbe sperato che, lasciata a se stessa, la flebile scintilla della vita che aveva comunicato si sarebbe spenta; che quella cosa che aveva ricevuto un’imperfetta animazione, sarebbe tornata a essere materia inerte; e si sarebbe addormentato sperando che il silenzio della tomba avrebbe soffocato per sempre la breve esistenza dell’orrido cadavere a cui aveva guardato come alla culla della vita. Dorme; ma qualcosa lo sveglia; apre gli occhi; vede che l’orrida cosa è a fianco del letto, apre le cortine e lo guarda con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande.

Un genere rinnovato

Quando Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo uscì, il romanzo gotico era già un po’ in declino, sebbene fosse molto popolare.  Di fatto, Mary Shelley aveva rivisitato il genere, aprendo il romanzo a una stagione fantascientifica del tutto nuova. Il romanzo gotico era caratterizzato da personaggi in preda a passioni violente o pene d’amore, come la vergine perseguitata da un qualche seduttore. In Frankenstein, l’eroina è sostituta da uno scienziato inseguito dalla creatura che lui stesso ha creato e poi abbandonato. La distinzione tra bene e male non è così netta e le figure di Frankenstein e della sua creatura tendono spesso a sovrapporsi, come se la creatura diventasse l’ombra persecutrice del rimorso del creatore e come se fossero due figure complementari e intrecciate. Questo “tema del doppio”, e il legame tra creatore e creatura, è talmente profondo che ben presto il nome di Frankenstein finisce per identificarli entrambi: la prima a confondersi fu la scrittrice Elizabeth Gaskell e l’equivoco si ripeterà negli anni a venire, fino ad oggi.

Un romanzo sottovalutato

Sebbene la figura indistinta di Frankenstein sia entrata con forza nell’immaginario collettivo, è sempre meno nota la sua origine: è celebre l’interpretazione di Gene Wilder in Frankenstein Junior, ma il romanzo sembra essere limitato a un argomento dei programmi scolastici. Eppure, oltre a essere uno dei pilastri del genere horror, è un romanzo estremamente introspettivo che riflette sulle tematiche della responsabilità e della vita, in senso stretto.

La creatura, un infelice

Nel 1848, quando Elizabeth Gaskell confonde Frankenstein con il mostro, afferma che il mostro ha “molte qualità umane”, ma è “senza coscienza” e, dunque, è incapace di distinguere tra bene e male. Per questo fa del male, perché il suo creatore, invece di educarlo, lo ha abbandonato. In realtà, il mostro è perfettamente consapevole della differenza tra bene e male: proprio perché il bene gli viene negato, prima dal suo creatore e poi dall’intera umanità, egli sceglie deliberatamente il male. È il mostro stesso ad affermarlo:

Io sono malvagio perché sono infelice; non sono forse evitato e odiato da tutta l’umanità? Tu, mio creatore, vorresti farmi a pezzi ed essere felice; ricordatelo e dimmi: perché dovrei avere io pietà dell’uomo più di quanto l’uomo abbia pietà di me? […] dovrei io forse rispettare l’uomo che mi disprezza? Che egli viva con me in termini di mutua bontà, e, in luogo di male, lo colmerò di attenzioni, e piangerò di gratitudine se si degnerà di accettarle. Ma ciò non può essere: i sensi umani sono una barriera insormontabile per la nostra convivenza. Tuttavia la mia non sarà l’abbietta sottomissione dello schiavo. Mi vendicherò delle offese subite: se non posso ispirare affetto, causerò terrore, e soprattutto a te, mio arcinemico perché mio creatore, giuro odio inestinguibile.

Il mostro non è quindi un mostro, ma un infelice, uno svantaggiato, un outcast. Se il mostro uccide è perché è solo e privo d’amore.

Victor Frankenstein, il moderno Prometeo

È evidente già dal titolo che Mary Shelley era più interessata al suo protagonista che al mostro. La figura di Frankenstein coincide con quella dell’overreacher, ossia colui che supera i limiti. Da Prometeo, all’Ulisse di Dante (e di Tennyson) al Dottor Faustus, l’overreacher rappresenta l’uomo che non si accontenta dei limiti umani che gli sono imposti spingendosi oltre in atteggiamento titanico. Victor Frankenstein è un giovane e ambizioso scienziato che non è soddisfatto di ciò che sa e vuole superare il limite umano per eccellenza: la morte e la creazione della vita. Di fatto, come Prometeo aveva sancito l’origine della condizione esistenziale umana consegnando all’umanità il fuoco rubato agli Dei, così Frankenstein si avvale della facoltà divina di creare la vita dal nulla.

La creazione per Mary Shelley

In realtà Mary Shelley concepisce per Frankenstein un’idea di creazione diversa: non dal nulla, bensì dal caos, dalla materia disordinata. Non a caso, nell’epigrafe introduttiva al romanzo, Mary Shelley si richiama a John Milton e al suo Paradiso Perduto (X, 743-745):

Chiuso entro la mia creta, t’ho forse chiesto io,
Fattore, di diventar uomo?
T’ho forse chiesto io di trarmi dalle tenebre?

È manifesta la somiglianza tra Lucifero, l’angelo che si ribella a Dio, e il mostro che si ribella al suo creatore, ma altrettanto visibile è anche come il tema dell’hybris (tracotanza) e della ribellione sia un filo rosso che attraversa tutto il romanzo e che vede in Frankenstein la sua personificazione. Questa creazione è, però, un’imitazione grottesca e inquietante di quella divina, non una mimesi perfetta. Da questo contrasto nasce proprio l’orrore e il fascino di Frankenstein: Mary Shelley già dal titolo preannuncia la conclusione della vicenda di Victor. Come Ulisse, Prometeo e Faust, anche Frankenstein è punito e tutto il suo racconto è una scia di rimorso che lo logora lentamente.


FONTI

Mary Shelley, Frankenstein, Einaudi, 2011

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