Žižek lo sapeva, l’Europa contro il sovranismo

Fresca di elezioni, l’Italia populista rientra fra quei paesi-partiti che incoraggiano l’autonomia da Bruxelles. La destra sovranista non vuole sottomettersi, ma l’Europa può essere un campione di democrazia nel mondo.

Un messaggio per la sinistra

Nel dibattito elettorale che ha preceduto il 25 settembre è passato in sordina un messaggio che avrebbe voluto raggiungere più elettori: “Il nostro futuro dipende da quanto la voce di Unione Popolare sarà ascoltata”. All’indomani delle elezioni constatiamo che solo l’1,43% degli elettori ha espresso simpatia per il partito di De Magistris, che pure si dichiara propositivo per aver ottenuto un tale risultato.

Il messaggio era di Slavoj Žižek, il filosofo sloveno ultra-pop incapace di dormire e trattenersi dal decostruire il reale (vedi la sua ultima Guida perversa alla politica globale, Ponte alle Grazie, 2022), di cui la nostra redazione aveva già tratteggiato un ritratto ai tempi di In difesa delle cause perse. Anche in questo caso Žižek ha speso due parole per difendere la causa persa della sinistra italiana.

Sul dibattito politico internazionale, invece, Žižek ha assunto posizioni talvolta ambivalenti, ma mai superficiali, anzi sempre corredate da vaste argomentazioni filosofiche. Da Jacopo Zanchini, vicepresidente dell’Internazionale, è stato definito come il marxista che difende l’Europa. In effetti Žižek tenta di comprendere l’ondata populista che sta attraversando l’Europa ponendola come risposta alle insoddisfazioni diffuse della crisi economia che da anni investe il continente. Se la tecnocrazia europea possiede qualità inedite nel panorama politico internazionale, le destre populiste chiedono autonomia e invocano l’antico e familiare spettro del nazionalismo.

Destre nuove, mica tanto

Qualcuno ha detto che il merito delle destre è aver riportato la passione nella politica. Sì, e si chiama populismo. Noi in Italia siamo veterani e ormai non ce ne accorgiamo più. La vittoria (stracciante) di Giorgia Meloni racconta di una Italia che sceglie un partito forte e autoritario, i cui legami celati o meno con il fascismo storico non spaventano, anzi, rassicurano.

Orbán e Morawiecki (rispettivamente Ungheria e Polonia, ndr) sono fra i primi presidenti a congratularsi con la coalizione vincitrice. Oltre a Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovenia, ora anche in Svezia c’è un partito nazionalista nella coalizione al potere. Orban gongola: “In questi tempi difficili, abbiamo più che mai bisogno di amici che condividano una visione e un approccio comune alle sfide dell’Europa”.

La vittoria di Fratelli d’Italia – che da quest’anno coinvolge anche tante sorelle – non ha sorpreso nessuno in Italia. A giochi fatti, ora che si è esaurito l’hype pre-elettorale, possiamo con polso fermo iscrivere questa vittoria fra quelle europee. Il populismo della Meloni è il più forte. Ha scalzato quello della concorrenza dei Cinque Stelle, assistenziale e anti-elitario, e soprattutto quello degli alleati, facendo fuori il nazionalismo xenofobo di Salvini e il sovranismo (grossolano) di Forza Italia (che di Orban ne ha fatto un modello). Rispetto ai due ragazzi, Georgia Meloni è un’autocrate di rinnovato carisma, ingioiellato con un femminismo eterodosso, che l’ha resa leader di opposizione e presto preferita degli italiani – anche fra i giovani.

Un autore che vale la pena disturbare in questa circostanza è Karl Polany che nella sua opera magna La grande trasformazione (1944) spiega come l’affermarsi dell’economia liberale internazionale abbia innescato quegli sconvolgimenti politico-sociali che hanno portato all’affermazione delle ideologie autoritarie. Le società che manifestavano il proprio scontento vennero ascoltate e strumentalizzate dalle forze fasciste.

Cosa possiamo raccogliere da uno specialista della crisi economico-politica del ‘900? Anzitutto la sensazione di un déjà-vu. Secondo l’autore nel corso del XIX secolo gli Stati europei riescono a resistere alle pressioni del sistema liberale solo grazie al nazionalismo, che consente loro di proteggersi da un male esterno nel tentativo di garantire un ordine sociale che viene individuato nei valori tradizionali e, come sappiamo, nella retorica del First: prima gli italiani. La xenofobia, insomma, è una reazione irrazionale che vorrebbe proteggere egoisticamente i propri interessi. Quale comunità europea è possibile su queste basi?

Ma la domanda potrebbe essere: come rispondere ai problemi della globalizzazione senza la capacità condivisa di comprendere i fenomeni derivati dalla libera circolazione di merci e persone?

Di Žižek vedremo come la scelta di dichiararsi europeista derivi dalla idea che solo una coalizione internazionale può regolamentare le dinamiche internazionali e disinnescare i partiti carismatici nazionali, inter-europei e oltre.

L’Europa è un’idea da difendere

Se la Von der Leyen ha lanciato un sassolino, il cane ha subito abbaiato. La tensione fra Europa e Italia si iscrive in una dicotomia più ampia che coinvolge qualsiasi nazionalismo presente entro i confini europei – e non solo. “Abbiamo gli strumenti” dice von der Leyen, e intende quelli usati per Polonia e Ungheria, e che vogliono ridimensionare ogni smania sovranista.

Ecco: l’Unione Europea di Bruxelles, che secondo la destra vuole imporre alle nazioni il codice dei principi liberali nei diritti, nelle istituzioni, negli atti di governo, cioè il “canone occidentale”, è forse l’unica forza che può proteggerci da una deriva culturale ed ecologica. Altrove in Europa, gli amici politici di Fratelli d’Italia & Co. – vedi Orbán, vedi Morawiecki – hanno avviato da anni e con successo il modello di democrazia illiberale e neo-autoritaria, che gli autocrati considerano più adatto ai tempi di crisi.

L’euroscetticismo ha cominciato a diffondersi con la crisi economica del 2008, e più precisamente dal 2014, quando alle elezioni europee i cittadini hanno preferito il silenzio nelle urne per comunicare scetticismo e indifferenza nei confronti delle politiche di Bruxelles. Il malcontento europeo dunque esiste: i sondaggi mostrano alcuni elementi di comunione fra i cittadini che lamentano la policy dell’unione: l’austerity fiscale, la gestione dei migranti, la complessità burocratica, e il dubbio che da quando il Paese è entrato nell’Unione abbia perso crediti e meriti internazionale – nel 2018 più della metà degli italiani preferiva andar via; eppure Italexit di Paragone ha convinto appena il 2%.

Ma oggi, elezioni terminate, andrebbe riconsiderato il ruolo dell’Europa. Nonostante un apparato così complesso e ingombrante possa risultare tecnocratico, insensibile nella struttura burocratica, l’interesse resta tuttavia quello di cooperare e di mantenere un equilibrio democratico.

Un’idea non-morta

Secondo Žižek occorre comprendere e riscoprire il ruolo dell’Unione Europea nel panorama internazionale, dove grandi Paesi come USA e Cina vogliono essere espressioni di una politica nazionale che vuole fare anzitutto – First – i propri interessi di mercato. Per Žižek i nazionalismi vanno d’accordo solo con altri nazionalismi. In un contesto economico ed ecologico quale quello che viviamo l’idea di Europa porta in sé valori quali cooperazione, dialogo e democrazia. Trattandosi di un “organismo idra”, policefalo, l’Europa prende decisioni in maniera diversa rispetto alle altre entità politico-economiche. L’esperienza trumpiana ha mostrato quanto le politiche internazionali e i rapporti economici fossero suscettibili ai comportamenti di leader forti, teste calde il cui potere si esprimeva in tante parole istrioniche e tweet caustici.

Žižek si esprime a favore dell’idea di Europa ma resta critico rispetto alla gestione tout court dell’organo direttivo. Non osanna le élite politiche internazionali contro le retoriche demagoghe della estrema destra, piuttosto mette in luce l’aspetto costitutivo di Bruxelles come organo collettivo, antinazionalista. “Ovviamente sono molto critico nei confronti dell’establishment europeo, ma sono convinto più che mai che l’Europa sia ancora un’idea incredibilmente forte: libertà, solidarietà, diritti umani e anche una certa sicurezza sociale che viene dal welfare pubblico e così via” scrive in Come un ladro in pieno giorno.

È assolutamente cruciale quindi per la sinistra europea, o per quello che ne rimane, rimanere paneuropea” perché “non si può contrastare il capitale internazionale da soli. E questo è il grande conflitto nella sinistra oggi”.

Cause perse: la sinistra

Solo una sinistra radicale può salvare l’Europa, ma dove sta la sinistra italiana? Secondo Žižek “ha perso un’occasione”, certamente l’ennesima.

In ogni caso il punto, per il filosofo, non sarebbe rifondare il comunismo, piuttosto dare carattere alla democrazia, che sia integrale e che implichi comportamenti cooperativi e sistemi di welfare sostenibili e duraturi, perché la democrazia “ha bisogno di più socializzazione, più pianificazione, più cooperazione internazionale, più sforzi globali per affrontare problemi come sanità, cambiamento climatico e immigrazione” ha raccontato a Enrico Franceschin. “L’iniziativa privata è bella, ma senza lo Stato non porta vantaggi per tutti. La pandemia ce lo ha rammentato. Lo stesso dovrebbe valere per la lotta al cambiamento climatico”.

Su questo tema in particolare si comprende l’importanza della cooperazione internazionale. Non è possibile risolvere un problema di così vasta portata se l’umanità si frammenta in compartimenti stagni (e claustrofobici). “L’Europa non è solo un altro blocco geopolitico di potere, ma una visione globale [e collettiva] che è in definitiva incompatibile con gli Stati-nazione”.

La sinistra non è stata in grado di raccogliere i malcontenti e tradurli in programmi politici credibili. Il PD di Letta si è rivelato tanto debole quanto elettoralmente incapace. Il loro fallimento rispetto alle lotta contro le disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione, nonché il discredito accumulato, hanno spinto gli elettori, anche i giovani, nelle braccia di quanti, pur non incarnando un’alternativa credibile, sono capaci di dar sfogo alle loro passioni: insicurezza, collera, paura, ecc.

Poiché occorre rispondere all’emergenza ecologica e ad altri problemi globalizzanti occorrono istituzioni collettive per innescare un dialogo con le altre potenze globali. Il nazionalismo nella politica internazionale conduce più facilmente verso forme di organizzazione istrioniche, autoconservative, e fondamentalmente egoiste – ancora, è la politica del First.

Scrive Peter Kellner, studioso dalla fondazione Carnegie per la pace internazionale: “Nello scontro tra populismo e realtà, è la realtà che vince”.

Sì ok, ma però


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