“The son”: storia di un declino familiare

Dopo The Father, il secondo capitolo della trilogia familiare The Son arriva a Venezia79. Il regista e scrittore francese Florian Zeller adatta anche la sua seconda opera dal teatro al grande schermo.

Come nel precedente, in questo film si percepisce fortemente la struttura teatrale anche se decisamente meno claustrofobica. Zeller, che lo scorso anno si è aggiudicato la vincita del Premio Oscar alla la migliore sceneggiatura non originale assieme a Christopher Hampton, porta avanti la narrazione realizzando una pellicola che tuttavia non può essere definita come un vero e proprio sequel: gli attori e la trama, infatti, sono completamente differenti. A rimanere è solo la struttura tematica e, ovviamente, le scelte narrative e registiche che avevano caratterizzato il regista nel precedente film.

Nicholas è figlio di genitori divorziati. Vive con la madre (Laura Dern) mentre il padre (Hugh Jackman) ha appena avuto un figlio dalla sua nuova fidanzata Beth (Vanessa Kirby) ed è un uomo in carriera senza scrupoli dalla forte personalità. La coppia però si ritrova a dover affrontare le difficoltà apparentemente passeggere del figlio, un ragazzo solitario e che fatica ad integrarsi con i ragazzi della sua età.

Nicholas

Dal titolo del film si presuppone che il protagonista sia Nicholas, figlio adolescente che — come Anthony (Anthony Hopkins) nel primo film — si trova fin da subito al centro della vicenda. In parte è vero, poiché Zeller decide di porre l’attenzione sulle dinamiche comportamentali tipiche dei ragazzi della sua età. Con l’avanzare della narrazione però si percepisce l’importanza fondamentale del rapporto tra padre e figlio. Come in The Father si assisteva all’inesorabile declino della malattia senile, qui si prende parte alla lenta e inesorabile perdita d’identità di un ragazzo fragile e troppo giovane per affrontare demoni così oscuri.

La depressione infatti diviene una presenza costante che corrode lentamente l’anima di Nicholas, il quale, ritrovatosi costretto a combattere questo mostro da solo, inizia ad avere paura. Una paura che si riflette anche sui genitori inizialmente distaccati e risolutivi ma che si dimostreranno pronti a tutto pur di salvare il loro sunbeam. Ma il suo malessere psichico non sembra alleviarsi neppure davanti alle loro amorevoli cure.

Ancora una volta Zeller si introduce silenziosamente in un ambiente familiare spiandone le dinamiche come un voyeur. Le psicologie e i pensieri dei personaggi vengono indagati grazie ai numerosi dialoghi che però non appesantiscono la narrazione, ma anzi favoriscono l’immedesimazione del pubblico. Il dolore di Nicholas è ormai radicato da tempo a seguito della separazione dei genitori, un dolore che lo accompagna e che lo inibisce facendolo sentire addirittura un inetto. La sua condizione psico-fisica non viene romanticizzata o estremizzata, ma rimane quasi impercettibile, latente. Le cicatrici, l’abbandono della scuola, le giornate passate a camminare per la città — una New York che nonostante la sua grandiosità non riesce a rimarginare le ferite —, la difficoltà a socializzare: tutto ciò contribuisce a delineare la situazione del ragazzo, soffocato da un peso che non riesce a riconoscere e gestire.

I can’t manage living

Peter

Ma siamo sicuri che sia solo Nicholas il figlio a cui fa riferimento Zeller nel titolo? Figlio di un uomo imperturbabile e meschino concentrato anch’esso sulla carriera, Peter si trova più volte a dover fare i conti con un passato rivela delle ferite molto profonde. Maltrattato e scoraggiato da una figura paterna assente, l’uomo affoga nella vita lavorativa ogni rancore celandovi il suo odio represso. Apparentemente svanito, riemergerà a seguito dei comportamenti nei confronti del figlio. È questo il momento in cui Peter guardandosi allo specchio si rivede da giovane, con le sue insicurezze, i suoi dubbi e risentimento verso un uomo che non ha mai creduto in lui.

The Son è un film che parla non solo della malattia, ma anche della difficoltà di essere genitori in un mondo sempre più complesso dove spesso ci si ritrova a dover scegliere tra lavoro e vita privata. L’ambiente familiare si rivela una complessa stratificazione di ricordi, rimpianti e sofferenze in cui pare impossibile inserirsi nonostante i tentativi. Neanche la dolce e accomodante Beth riesce a districare i nodi di quel triangolo relazionale in cui si trova intrappolata.

La malattia

Con un finale inaspettato, straziante e dalla forte carica emotiva, The Son preferisce concentrarsi sulla malattia rispetto ad una riflessione più ampia sul concetto di famiglia e perdita. Zeller costruisce una messa in scena ridondante in cui i personaggi si trovano — come in The Father — a dover lottare con i propri demoni senza alcun intervento esterno, ma al contrario in un’elegante casa borghese che si rivela nettamente in contrasto con la confusione mentale e il malessere fisico di chi la abita. Come sempre l’ambiente circostante — la casa — ha una funzione metaforica quasi fagocitante che rischia di opprimere irrimediabilmente chiunque vi metta piede.

In Zeller, il dolore è uno stato mentale e fisico da accettare senza doverne cercare per forza le cause scatenanti. È un qualcosa che si radica lentamente dentro di noi e che fatica ad sgorgare. Detto ciò nonostante le premesse la messa in scena di The Son non raggiunge neanche lontanamente quella del film precedente, in cui la demenza senile veniva percepita in maniera molto più sconcertante. Qui si riflette in maniera più superficiale puntando sull’emotività del pubblico, lanciando però un’apprezzatissima denuncia rispetto alle problematiche giovanili della salute mentale.

Il mio è un modo per aprire un dibattito senza rifuggire da questi argomenti, perché so che ci vuole tempo per affrontare le domande giuste. E a volte non se ne ha abbastanza per evitare la tragedia.

 

 

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