“Thor: Love and Thunder”, la dolorosa analisi di un amante ferito

Questa recensione il sottoscritto non voleva farla.
Purtroppo uno sfortunato gioco di conseguenze ha condotto questo articolo tra le mie infauste mani che ora come una tetra ghigliottina dovranno inevitabilmente calare il proprio giudizio su tale nefasta pellicola che porta il nome di Thor: Love and Thunder.
La penna dietro questa recensione che vi apprestate a leggere è chiaramente quella di un fan di lunga data dell’universo fumettistico targato Marvel, un individuo la cui adolescenza è stata impreziosita da storie su carta di supereroi capaci di compiere meraviglie e che vede nella saga del Macellatore di dei, scritta da Jason Aaron e disegnata da Esad Ribic, una grande perla della letteratura a fumetti di genere. Tuttavia non traiate conclusione affrettate sospettando che il pensiero che guida la penna sia annebbiata da un cieco e bieco fanatismo incapace di concepire una critica quanto più possibile nel segno dell’oggettività.

E purtroppo l’oggettività parla chiaro.
Thor: Love and Thunder è un film terribile.
(Vi giuro che scrivere questa frase ha fatto più male a me che a voi).

La saga originale, una perla di Aaron e Ribic

La bellezza della saga scritta da Jason Aaron vive di una straordinaria oscurità che pervade il sentiero di tre diversi Thor appartenenti a tre differenti linee temporali, il cui destino è accomunato dall’incontro di ciascuno con la figura del macellatore di dei, Gorr. Questi è la personificazione della vendetta nei confronti del concetto stesso di divino, la voce della rabbia di chi ha pregato per una intera vita senza mai venire ascoltato. Dinnanzi alla morte della sua famiglia e all’opportunità datagli dal fato di far scorrere in ogni tempo il sangue degli dei, Gorr ha scelto di brandire la Necrospada, reliquia regina delle tenebre, e di dare la caccia, uccidere, rendere schiavo e crocifiggere ogni incauto essere che osi professarsi dio.

Queste poche righe sono solo un assaggio del profondo lavoro filosofico e narrativo condotto nel corso della serializzazione di Thor: God of Thunder nel 2013 da Aaron e Ribic, eppure dovrebbero già bastare per farvi percepire lo spessore autoriale che si cela dietro l’opera.

Di tutto ciò, Taika Waititi, regista della pellicola incriminata, cosa avrà scelto di portare sul grande schermo?
Niente. Assolutamente niente.

Il buio oltre Taika Waititi

Taika Waititi sceglie di perseguire la via che già aveva intrapreso con il precedente Thor Ragnarok, ovvero quella di non tradire il suo stile di regia. Il primo problema nasce esattamente qui.
Il suo stile non ha nulla a che fare con le atmosfere proprie della storia scritta da Jason Aaron. Waititi ha tra i suoi marchi di fabbrica una incredibile capacità di giocare con i personaggi, anche i più seriosi, e di renderli grotteschi, fuori dai canoni e fonti di ilarità, un esempio evidente e ben riuscito lo troviamo in Jojo Rabbit con la figura emblematica di Adolf Hitler, da lui stesso interpretato. Questo elemento, unito ad una regia frizzante e ai suoi brillanti spunti di scrittura nella fase di creazione della sceneggiatura ne ha sin qui fatto le fortune artistiche. Se per Thor Ragnarok tale amalgama poteva in qualche modo funzionare, regalando agli spettatori un film inaspettato, totalmente votato all’intrattenimento, piuttosto che alla coerenza narrativa, con Thor: Love and Thunder non è così.

Il desiderio di voler essere il solito Taika Waititi di sempre è la prima causa del fallimento della pellicola. Partendo dalla caratterizzazione dei personaggi inizia un lungo crocevia di dolore per mente e corpo di chi si ritrova ostaggio in sala del biglietto appena pagato. Da Thor a Gorr, da Zeus a Jane Foster, tutti risultano vittima di una inspiegabile forma di idiozia. Ogni singolo dialogo contiene battute che oscillano come un pendolo tra il demenziale e l’infantile, con picchi di imbarazzo che farebbero invidia ai rumoristi di Paperissima Sprint.

Tre personaggi in cerca di autore

Thor non è più Thor, ormai è solo un bel boscaiolo palestrato che va in giro con una accetta e di tanto in tanto spara un paio di fulmini qua e là, combinando più guai che altro. Tutta la sua epicità, il suo essere lo stoico erede di Odino destinato a ripristinare gli antichi e gloriosi fasti di Asgard è solo un ricordo del passato. Ora il dio del tuono deve far ridere. Punto. Deve essere commercialmente vendibile ai bambini e come lui anche le sue storie.

Sorvoliamo su Zeus perchè davvero è meglio non parlarne. Tutta l’interpretazione di Russel Crowe è da cestinare dietro un facepalm continuo ad ogni sua apparizione, insalvabile nemmeno dopo l’interessante monologo post-credits.

Eccoci difronte alla Potente Thor di Natalie Portman, il secondo più grande spreco del film. Taika Waititi come in uno dei peggiori collage mai visti unisce alla saga del Macellatore di dei anche quella de La Potente Thor, sempre ad opera di Jason Aaron del 2018. Il personaggio di Jane Foster appare nella pellicola con dinamiche inopportune e forzate all’interno della narrazione. La sua storia meritava forse una pellicola a sé stante, capace di rendere al meglio il dolore e la sofferenza che una donna di scienza come lei ha dovuto affrontare dopo la scoperta del cancro che la affliggeva e la responsabilità di avere sulle spalle il ruolo di erede di Thor, in un mondo in cui quest’ultimo non era più tale e non poteva esserle accanto nelle sue battaglie. Invece ciò che ci troviamo a vedere è la riscrittura, nel segno di un fintissimo girl power, di un personaggio scialbo, senza carisma e inserito senza coerenza all’interno di un mosaico dalle forme oscene.

Ultima triste nota all’interno del comparto protagonisti Gorr, interpretato da uno sprecato Christian Bale. Chi scrive in questo preciso istante tira un lungo sospiro di rammarico e delusione interiore. Cosa aggiungere oltre il termine “Incommentabile”. Un villain del tutto privato della sua dignità artistica, svuotato della sua profondità filosofica nelle azioni e nelle scelte, lasciato alla deriva in un plot che scorre senza un senso verso il nulla. Cancellato totalmente il personaggio della moglie Arra e riscritto, malissimo, quello del figlio Agar, nell’opera di Waititi diviene una figlia. Il rapporto con questi ultimi risulta cruciale all’interno della saga di Jason Aaron per comprendere le folli gesta del Macellatore di dei, che viaggia attraverso tempo e spazio, in ogni era mai esistita, in ogni universo mai creato, per eliminare la piaga divina. La sua meravigliosa evoluzione narrativa lo porta a divenire egli stesso un dio, etichettato come “Dio dell’Ipocrisia” dal figlio ribelle Agar che Gorr ha ricreato dall’oscurità e che uccide con brutalità per disgusto nei confronti della sua ribellione.

Una figura dalla psicologia drammatica degna di un’opera ottocentesca, che insegue la vendetta per una famiglia che dice di amare ma che alla fine diviene solo un’ombra sulla strada lastricata di morte. Quasi sicuramente Taika Waititi non ha mai letto il lavoro di Aaron e Ribic, non c’è altra spiegazione possibile dinnanzi alla scempio che ha fatto di questo povero personaggio, consegnato al pubblico in una veste imbarazzante con tanto di redenzione finale priva di alcun significato.

Con l’impegno sbagliare tutto è possibile

Sotto il profilo della regia non ci sono possibili ancore di salvezza.
Il film corre senza sosta come un treno lanciato fuori dalle rotaie alla massima velocità. Non viene dato tempo ai personaggi di crescere psicologicamente, di evolvere e apprendere dalle situazioni che si trovano a vivere. Il dramma che dovrebbe permeare la vicenda viene messo il terzo piano per lasciare spazio ai problemi di Valchiria, sindaco di New Asgard svilita a cittadina per turisti, e alle scenate di gelosia di Stormbreaker nei confronti di Mjolnir (si avete capito bene, un ascia inanimata che è gelosa degli sguardi che Thor rivolge ad un martello inanimato, un’idea di scrittura degna degli sceneggiatori di Boris).  Tutto deraglia immediatamente da ogni logico filo consequenziale che possa guidare la narrazione e si indirizza verso la noia e il disagio.

La CGI utilizzata è forse la peggiore di sempre vista in un film Marvel. L’impatto visivo restituisce un atmosfera di plastica e computer grafica che non rende mai credibile la finzione scenica in cui si muovono i personaggi. Degna di nota la scena dell’attacco notturno alla nuova Asgard da parte delle bestie oscure di Gorr, in cui letteralmente non si vede nulla. Per tutta la durata dello scontro, nonostante il non trascurabile ausilio di uno schermo cinematografico, le forme appaiono indistinguibili e rendono incomprensibile il combattimento, suscitando nello spettatore un enorme senso di frustrazione. Errori che persino nel peggior dei blockbuster moderni non sono accettabili, a fronte di un budget di produzione di portata multimilionaria.

La mancanza di rispetto di Taika Waititi nei confronti dell’opera originale da cui ha tratto ispirazione per Thor: Love and Thunder è disarmante. Nessuno si sognerebbe di fare un film in cui Sauron alla fine della storia si redime e guardando Frodo che impugna l’anello gli sussurra “Abbi cura di lui”, gettandosi subito dopo tra le fiamme del Monte Fato. Perché dovrebbe farlo Gorr? Perché non lasciare ad un villain la dignità della propria malvagità, le conseguenze della propria collera ed il prezzo da pagare della propria vendetta. Ciò che è mancato è ancora una volta il giusto riconoscimento a scrittori di caratura mondiale che nulla hanno da invidiare ai grandi nomi della letteratura contemporanea, ma le cui opere vengono bistrattate poiché colpevoli di essere fumetti. La saga del Macellatore di dei di Aaron e Ribic trae ispirazione da grandi classici del passato ed i suoi personaggi sono scritti per richiamare drammi shakespeariani e tematiche nietzschiane, tutti elementi che Waititi ha scelto di ignorare per creare ciò che, fa male dirlo, non è altro che un film brutto.

Un film veramente brutto.

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