“Nope”, il cinema secondo Peele

Dopo esperimenti cinematografici come Get out (2017) e Us (2019), il regista Jordan Peele torna sul grande schermo con il suo terzo lungometraggio Nope. Insieme a lui ovviamente non poteva mancare il suo attore feticcio Daniel Kaluuya, che dopo la performance in Judas and the Black Messiah lo scorso anno (valsa la statuetta d’oro), aumenta di gran lunga le aspettative del pubblico. L’opera prima del regista fu un vero e proprio caso al box office americano guadagnando una cifra esorbitante rispetto al budget di partenza di soli 4.5 milioni di dollari. Dopo due anni realizza Us partendo da un’idea semplicissima ma che si rivelò ancora una volta di grande impatto sul pubblico. 

Con questo nuovo lavoro Peele mette in scena le tematiche già affrontate precedentemente arricchendole questa volta con la propria impronta stilistica sempre più forte, accompagnata da una sottile critica alla società contemporanea.

Un ribaltamento di genere

OJ (Daniel Kaluuya) e Emerald (Keke Palmer) sono due fratelli che gestiscono il ranch di famiglia, ma alla morte del padre — avvenuta anch’essa in circostanze inspiegabili — i due iniziano a notare delle strane presenze che si riveleranno sempre più vicine al paranormale.

Questa è la trama di Nope. Apparentemente semplice e lineare, nasconde alcune riflessioni più o meno celate. Innanzitutto il tema del razzismo già ampiamente sviluppato nei precedenti lungometraggi e in questo prodotto portato all’estremo. Il film infatti non può essere pensato semplicemente come un horror, poiché si devono considerare anche le moltissime citazioni al sottogenere dei b-movies o ai leggendari spaghetti western. Normalmente quando si pensa a questo genere di film si fa riferimento a figure maschili appartenenti ad una certa classe sociale e ad un’etnia ben specifica. In questo caso Peele decide di ribaltare i canoni stilistici dell’uomo bianco e virile ponendo al centro della narrazione due ragazzi di colore che si guadagnano da vivere con un lavoro che per certi versi si sono trovati costretti a svolgere. Tuttavia, rispetto ai due film precedenti, il regista sembra concentrarsi maggiormente sul rapporto tra uomo e paranormale piuttosto che sulle tematiche politico-sociali.

Citazionismo e tematiche di genere

Il film infatti è pieno di contrasti: il digitale e l’analogico, il bianco e il nero, il bene e il male, il reale e il paranormale, l’astratto ed il concreto. I protagonisti sembrano mossi da un istinto di sopravvivenza in un contesto che però non sembra essere particolarmente minaccioso. La presenza paranormale pare abbattersi su di loro senza un apparente motivo arrivando a portarli all’esasperazione. Molti ci hanno visto una critica pesante nei confronti del cinema contemporaneo, che ormai guarda con noncuranza ai modelli del passato distaccandosene freddamente. Peele al contrario riprende molti di questi modelli, a partire dall’enorme citazione al fantino di Eadweard Muybridge e al suo famosissimo cavallo.

Stesso discorso vale per il racconto — parallelo alla storia principale — dello scimpanzé che apre il film con una sequenza inquietante e apparentemente di grande importanza: questo avvenimento sembra ricordare Travis, scimpanzé che aggredì e sfigurò pesantemente il volto di una donna durante delle riprese per un programma TV.

Il cavallo

Anche lo sfruttamento degli animali deve quindi essere considerato una tematica fondamentale per il regista, in quanto non solo Peele decide di suddividere il film in capitoli denominati come i cavalli del ranch dei due protagonisti, ma in una delle scene iniziali mette in risalto il tipico atteggiamento delle case di produzione americane verso un utilizzo improprio degli animali in scena costringendoli a sofferenze e performance al di fuori della loro portata.

Sul piano psicologico il cavallo è spesso considerato simbolo dell’inconscio, della forza e del desiderio: la volontà di cambiare le cose, di avanzare con grazia e coraggio verso un futuro in cui le barriere stilistiche vengono abbattute e la libertà di espressione viene riconosciuta su tutti i livelli. I paragrafi del racconto sembrano una scalata verso il raggiungimento della catarsi, un crescente avanzamento sia sul piano psicologico dei personaggi che sulla natura paranormale della vicenda.

Nope è una critica al Cinema

Questo gioco di sguardi, dell’essere visti ma non poter vedere, può effettivamente essere una metafora. Un grande occhio, che è poi il Cinema, o meglio, gli standard che i registi devono rispettare nel cinema, ci guarda giudicando il nostro lavoro. Ma se noi provassimo a non guardare più quegli standard? Se si provasse ad andare oltre gli stereotipi di genere, all’identità e ai limiti imposti dall’alto? Così fanno i due protagonisti, scappano (ancora) da un cinema reiterante e reiterato che propone sempre gli stessi racconti già visti e rivisti.

Anche se si pensa semplicemente all’iconografia dell’alieno si può notare un cambiamento radicale, non solo visivo ma soprattutto metaforico. La presenza aliena non è una presenza fine a sé stessa, non è più qualcosa di diverso ma è mostruosamente vicino e simile a noi. Non è più una cosa ma un concetto. Questa presenza cambia, muta, si modifica e cresce in base a quello che le succede intorno diventando una minaccia sempre più imponente.

Un’opera sicuramente ambiziosa quella di Peele, forse un po’ troppo cerebrale, ma sicuramente che fa pensare.

CREDITI 

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