Giuseppe Valadier e il restauro dell’Arco di Tito

Profilo biografico di un ambizioso artefice: i primi anni

Giuseppe Valadier nasce a Roma nel 1762 ed esegue l’apprendistato nella bottega del padre Luigi, il quale era un affermato orefice.  Dopo aver ottenuto il premio di architettura con medaglia d’oro nel 1775, la carriera di Valadier è ricca di successi. Egli è stato libero di ideare e progettare, come dimostrano la sua attività in Umbria tra il 1784 e il 1792 e i progetti per le campane di San Pietro portate a termine nel 1786; insieme a quella alle Quattro Fontane e ai busti in Santa Maria Maggiore e in San Giovanni in Laterano.

Gli anni Novanta sono quelli dove l’architetto romano inizia ad avere le sue soddisfazioni. Egli, infatti, lavora in tutta la penisola e viene nominato aiutante di Giovanni Stern presso la fabbrica di San Pietro; mentre, sempre presso la stessa sede, nel 1795 egli ottiene la nomina di Architetto Sovrastante con Raffaele Stern nominato Architetto Revisore. Nel 1797, in seguito al Trattato di Tolentino, Valadier su incarico del cardinale Busca, ha ordinato e imballato le opere per il viaggio per fare in modo che non subissero danni. I suoi imballaggi sono infatti ricordati nelle cronache dell’epoca come tra i migliori e questo ne ha permesso il loro rientro in Italia senza gravi danni.

Le vicende storiche di questi anni vedono Valadier migrare da Roma verso Napoli e poi verso la Sicilia. Tuttavia, egli farà rientro nella sua città qualche anno più tardi, quando Pio VII viene eletto papa nel 1800. Per questa ragione la sua attività in questo periodo si riduce a qualche raro intervento, di cui notevole interesse sono gli scavi presso il Pantheon nel 1804 e il prospetto per il risarcimento di Ponte Milvio del 1805.

Profilo biografico di un ambizioso artefice: il successo

La neonata Repubblica Romana è in condizioni economiche e sociali molto precarie. Infatti, papa Pio VII ha dato il via a molte opere pubbliche di grande importanza per sistemare l’area del Flaminio e del Colosseo per restituire ai cittadini di Roma la sua bellezza e la sua storia. Il conte di Tournon chiede a Valadier di riprendere i lavori dello sterro dei Fori e di eliminare le opere murarie presso Santa Francesca Romana. Fondamentale è stato poi, per volere del duca Luigi Braschi nel 1810, riprendere il progetto dello stesso architetto romano del 1784 di sistemare Piazza del Popolo; con annessa passeggiata sul colle del Pincio.

Continuano gli scavi anche presso il Colosseo, dove nel 1810 Valadier scopre le sostruzioni che lo sostenevano e di questo effettua lo spurgo delle grotte e dei canali che affluivano nella Cloaca Massima, per ricoprire poi tutto di terra. Nel 1812 passa invece alla Colonna Traiana per la quale, dopo aver dissuaso i francesi dal trasportarla a Parigi e averne guidato lo sgombero dell’area circostante, progetta una piazza che si sarebbe dovuta sviluppare tutta intorno, progetto che però non si porta a compimento. Inoltre, in queste occasioni egli ha anche modo di studiare e confrontarsi con le architetture antiche.

Valadier studia le architetture sui precetti di Vitruvio e li applica contestualmente alla scoperta del tempio di Antonio e Faustina nel 1810; i templi della Sibilla in Tivoli e di Vesta in Roma nel 1813; i templi di Giove statore e Giove Tonante; la Colonna di Foca nel 1818; il teatro Marcello nel 1822 e nel 1826 il tempio di Marte Ultore, presentando questi monumenti così come appaiono, apprezzando il loro stato di rudere.

Molti ancora sono i restauri che egli ha eseguito nel corso della sua vita; accanto ai più famosi ci sono quelli meno noti. Valadier ha mantenuto sempre un contatto con l’antico senza distruggerlo e inquinarlo. La sua fiorente attività di architetto, sculture, orefice e artista si conclude nel 1839 quando muore nella sua Roma.

Il restauro dell’Arco di Tito: la situazione romana

Immagine di come era l’Arco di Tito prima dell’intervento di Giuseppe Valadier.

Il 17 Maggio del 1809 Napoleone Bonaparte conquista Roma e nomina una Consulta Straordinaria per gli Stati Romani guidata dal conte Camillo de Tournon, seguita il 17 giugno dall’istituzione di una Commissione per la Tutela e del Restauro nella quale lavora, oltre a Valadier e a Raffaele Stern, anche Giuseppe Camporese. I tre architetti e restauratori hanno diviso il lavoro in due categorie: i monumenti antichi sui quali poteva essere effettuato un restauro e quelli invece che, in condizione di rovina e accertata la loro condizione di rudere o di dimensioni troppo vaste, dovevano essere lasciati nella loro situazione e procedere solo con una operazione di conservazione.

Per Napoleone la conquista non è stata puramente militare. Il suo obiettivo era quello di divulgare la cultura francese presso i nuovi popoli annessi all’impero. Roma, per lui, non era un riferimento ideologico né tanto meno egli cercava nelle sue rovine il fascino di una legittimazione imperiale. Considerava la città importante per le sue testimonianze storiche ma non per il loro simbolo di passato mitico da imitare, che invece egli vedeva nelle testimonianze dell’età carolingia.

Le opere vengono distinte, quindi, per gradi di interesse. Utilizzando il criterio scientifico, l’intervento di restauro è pensato in funzione di decoro urbano e non storico-artistico. Questa azione è sintomo del significato laico assegnato alle rovine romane, sulle quali si intende disegnare l’immagine di una nuova grandezza, reinserendole in un progetto che istituisca nuovi legami con la città attuale.

Il restauro dell’Arco di Tito come recupero storico e urbano

Napoleone, nel 1811, nomina Valadier Architetto della Prefettura di Roma e gli assegna subito tre lavori fondamentali. Nello stesso anno riprendono i lavori per la realizzazione di Piazza del Popolo e la sistemazione del Pincio; nel 1823-26 l’architetto Valadier si occupa del lato occidentale del Colosseo, dopo che il lato occidentale era stato restaurato da Raffaele Stern nel 1806.

L’intervento sull’Arco di Tito avviene in due tempi, nel 1810 e nel 1820, per motivi politici ed economici dovuti alla caduta di Napoleone a Waterloo nel 1814. Costruito nella seconda metà del I secolo d.C. durante la dinastia Flavia da Vespasiano per onorare la memoria del padre Tito, conquistatore di Gerusalemme, presenta due grandi pannelli scolpiti, collocati all’interno del fornice, nei quali è raffigurato il ritorno a Roma del condottiero che, tra i trofei di guerra, porta anche il candelabro a sette braccia, uno dei simboli più importanti della religione ebraica. L’arco era rimasto integro per tutta l’età imperiale, ma durante il medioevo viene inglobato nelle fortificazioni di proprietà che i Frangipane possedevano nell’area del Foro.

La metodologia di lavoro

Seguendo il destino di molti altri edifici del tempo, il monumento aveva quindi subito nei secoli una serie di espoliazioni. L’arco si presentava con il solo fornice visibile fino agli inizi del XIX secolo, mentre i capitelli e l’iscrizione del lato verso il Foro erano perduti.

Alla morte di Stern nel 1820, con il cantiere ancora in fase iniziale, la direzione del restauro passa a Giuseppe Valadier. Valadier interviene quindi nel 1820 proseguendo nei lavori avviati nel 1810, quando è stato abbattuto un granaio che faceva da sperone all’arco. Tutto il lavoro è documentato dalla dissertazione che Valadier ha scritto e letto presso l’Accademia di San Luca, dove con precisione egli riporta in che condizioni ha trovato l’arco descrivendo il suo modo di operare.

Valadier studia il monumento confrontandosi con altri archi romani meglio conservati, come l’arco di Ancona e di Benevento, con l’intento di comprendere quale potesse essere stata la sua forma originale, ormai irrimediabilmente manomessa e della quale rimaneva il solo e unico fornice. Egli ha prediletto un intervento di liberazione dell’antica architettura dagli edifici della famiglia dei Frangipane che vi si erano addossati in età medievale. Come egli stesso racconta, riesce ad individuare l’altezza dell’arco e la sua posa, grazie al ritrovamento di una porta tra gli intercolunni dalla quale partiva una scala; così come importante è stato ritrovare nei pressi della finestra il piano di calpestio interno da cui ha ricavato l’altezza della finestra.

L’intervento

Integrazione delle parti mancanti: sulla sinistra, colonna e capitello originali, sulla destra colonna e capitello di restauro, dettaglio.

Valadier pensa ed effettua la cosiddetta restituzione della forma “pristina”, cioè originaria dell’arco, attuata con la ricostruzione dei piloni e il completamento dell’attico. Per fare questo egli, in maniera scientifica e puntuale, agisce in questo modo. Dopo aver riconosciuto il motivo della caduta, ossia il mancato fissaggio dei conci marmorei con perni di piombo, che ne ha provocato lo scivolamento verso il basso smonta i conci e la chiave dell’arco. Questi, dopo essere stati numerati, vengono collocati nella posizione originale opportunamente fissati sfruttando il gioco-forza che agisce sull’arco, ritenendo un rinfianco insufficiente anche per motivi estetici.

Nel suo disegno, la parte centrale, quella autentica, è evidenziata con righe sottili, per distinguere le parti originarie dalla ricostruzione. Nelle parti aggiunte, il fregio appare non scolpito, ma liscio, come pure le colonne, che nelle parti originarie sono invece scanalate. Nel disegno, l’architetto mostra quanto rimaneva dell’arco antico, ovvero il fornice centrale, alcuni conci dell’attico con una delle due iscrizioni, quella verso il Colosseo, e una parte del basamento. Scomparse erano invece le colonne angolari che, tuttavia, erano in parte ricostruibili sulla base della lettura dell’ordine architettonico utilizzato.

La filosofia del restauro

Sulla linea dei princìpi e delle idee lasciate da Stern, Valadier utilizza per la prima volta materiali differenti rispetto a quelli originari. I suoi interventi, visti da vicino, mostrano la loro diversità; come l’utilizzo del travertino al posto del marmo per le parti aggiunte; ma che da lontano mostrano l’opera in un unico valore cromatico. Anche se la scelta di materiali differenti è dovuta a motivi economici, vi era comunque una consapevolezza e una sensibilità di fondo nel loro utilizzo. Inoltre, le parti scolpite sono completate senza scendere nella riproduzione dei dettagli come le scanalature delle colonne; il fogliame dei capitelli; l’intaglio delle modanature.

Giuseppe Valadier è il simbolo del restauro di tipo integrativo. Egli ha saputo rispettare non solo il monumento che di volta in volta ha affrontato; ma di questo è stato in grado di comprenderne la vita e soprattutto la storia. Ed è per tale motivo che i suoi interventi non si limitano solo all’opera in sé ma si estendono al contesto urbanistico, il quale, se ben valorizzato favorisce la sua conservazione e ne permette la corretta fruizione.

Come dimostrano i suoi interventi e i disegni progettuali, la sua attività è polivalente in quanto usa le doti di architetto, urbanista, restauratore e conoscitore per metterle al servizio della città di Roma guidata da Napoleone che, tra il Settecento e l’Ottocento, ha bisogno di una nuova veste.

 


Fonti

Ignazio Ciampi, Vita di Giuseppe Valadier, architetto romano, Roma, in «Giornale Araldico», LXIV, 1870.

Angela Marino, Cultura archeologica e cultura architettonica a Roma nel periodo napoleonico, in Villes et territoire pendant la période napoléonienne (France et Italie). Actes du colloque de Rome (3-5 mai 1984), Roma, École Français de Rome, 1987.

Pierlugi Panza, Antichità e restauro nell’Italia del Settecento. Dal ripristino alla conservazione delle opere d’arte, Milano, Franco Angeli, 1990.

 

 

 

 

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