Maledetta primavera: la morte delle mezze stagioni

Primavere calde, caldissime: all’improvviso. Fiumi e torrenti in secca, il Po divorato dalle alghe. Le stradine sterrate, sabbiose e secche, già ai primi di maggio, e la terra dei campi spaccata dalla calura. La settimana prima col giubbotto, quella successiva in maglietta. I laghi prosciugati e i fiumi salati. Non piove, governo ladro! Dov’è finita la primavera? Perché anche quest’anno siamo passati dal freddo al caldo così bruscamente, senza una via di mezzo? Che fretta c’era maledetta primavera? Che fine hanno fatto le mezze stagioni, esistono ancora? I clienti dei bar sentenziano, con quell’amaro compiacimento che accompagna la constatazione di un luogo comune ben piazzato fra il generale assenso, che no: le mezze stagioni non esistono proprio più.

E in effetti cosa contraddistingue la primavera oramai dalla prima estate o dal tardo inverno, le allergie al polline? Chi lo sa più cos’è la primavera. Il luogo comune sentenzia, da secoli ormai, la morte delle mezze stagioni, ma si dà il caso che le mezze stagioni stesse siano una sorta di luogo comune: una categoria più che altro umana e non scientifica.

Leopardi e quella vetusta lamentela

A riprova di ciò si può considerare da quanto tempo gli uomini si lamentano dell’assenza delle mezze stagioni. É infatti un antico vizio quello di lamentarsi della mancata primavera (a quasi nessuno importa dell’autunno) e fra i tanti frustrati compare anche un antenato illustre: Giacomo Leopardi. Così il poeta di Recanati, in una peculiare declinazione del suo pensiero che – con indecente senso dell’umorismo – potremmo definire pessimismo meteorologico, scrive nello Zibaldone:

Egli è pur vero che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a Roma, la mattina di Pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno dì impegnar la camiciola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno

Il ratto di Persefone: la fanciulla e la regine degli inferi

Eppure, fin dall’antichità, gli uomini hanno diviso l’anno nelle quattro stagioni che noi conosciamo. Nel vasto repertorio mitico-leggendario della cultura classica appare anche un mito, fortemente evocativo e simbolico, sull’origine della primavera. Si tratta della storia di Kore (dal greco fanciulla) figlia di Zeus e Demetra, di cui si innamorò Ade che, un dì, rapì la fanciulla che era andata a raccogliere dei fiori. Le ancelle allarmate, non trovando più Kore, si rivolsero alla madre che cercò in lungo e in largo senza però riuscire a ritrovare l’amata figlia. Presa dalla disperazione Demetra, dea della terra e della fertilità, smise di adempiere ai suoi doveri con disastrose ripercussioni. Allora gli dei allarmati si rivolsero a Zeus per porre rimedio alla situazione e questi scoprì che la fanciulla era stata rapita da suo fratello, Ade, il re degli inferi. Zeus fece sapere a Demetra che avrebbe potuto riavere la figlia al suo fianco, ma solo a patto che ella non avesse mangiato alcun cibo infernale. Ma Kore (secondo alcuni tramite un inganno, secondo altri volontariamente) si era cibata di tre semi di melograno: di conseguenza si stabilì che Kore (ormai diventata Persefone), avrebbe speso ogni anno tre mesi (ossia la stagione invernale) con il proprio sposo negli inferi e tre stagioni con la madre (ovvero la primavera, l’estate e l’autunno).

Il mito spiega tanto la desolazione invernale, dovuta alla tristezza di Demetra, quanto la festa primaverile dovuta alla gioia della madre nel riavere con sé la figliola. Uno degli aspetti più interessanti del mito è il dittico Kore-Persefone: da un lato la fanciulla spensierata, la figlia delle dea della terra e della fertilità, innocente e gioiosa; dall’altro la temibile Signora delle Tenebre, moglie di Ade, regina degli inferi terribile e facile all’ira. Non stupisce dunque che l’etimologia più accreditata del nome Persefone sia proprio “portatrice di morte”. Eppure queste due figure, così antitetiche e dissimili, coesistono in maniera quasi complementare in un unico personaggio; così come nell’anno e nel ciclo della vita coesistono primavera e inverno, nascita e morte, generazione e corruzione.

Sarà un volto chiaro.
S’apriranno le strade
sui colli di pini
e di pietra…

Esistono solo due stagioni?

Come diceva Aristotele nell’Etica Nicomacheauna rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole“, ma allora cosa fa la primavera? Quando inizia e quando finisce? A seconda della definizione che si vuole applicare, possiamo individuare almeno tre papabili risposte. Possiamo ovviamente ricorrere alla tradizionale definizione delle stagioni, quella a cui facciamo riferimento normalmente, e in questo caso parleremo di stagioni astronomiche. Infatti in questa dicitura l’andirivieni delle stagioni è segnato dagli equinozi (20 marzo e 23 settembre) e dai solstizi (21 giugno e 21 dicembre). Si può inoltre parlare di stagioni meteorologiche, in questo caso il punto di riferimento per scandire il viavai delle stagioni sono le condizioni meteorologiche, allora si fa riferimento al mese più caldo (luglio) e al più freddo (gennaio): ne consegue che (secondo questo criterio) giugno, luglio e agosto, compongono l’estate e dicembre, gennaio e febbraio, l’inverno; la primavera e l’autunno occupano gli spazi intermedi.

Infine si può dividere l’anno fra stagione calda (da aprile a settembre) e stagione fredda (da ottobre a marzo). Questa sarebbe la divisione più accurata dell’anno: una sorta di lungo inverno che poi in maniera irregolare, altalenante e disuniforme, lemme lemme, cede il passo all’estate, e viceversa (con buona pace delle mezze stagioni). Dunque chi dice che “le mezze stagioni non esistono più” ha ragione solo a metà poiché, in realtà, non sono mai esistite.

I fiori spruzzati
di colore alle fontane
occhieggeranno come
donne divertite:
le scale le terrazze le rondini
canteranno nel sole.

Il cambiamento climatico e il destino delle stagioni

Possiamo dunque stabilire che, non essendo le mezze stagioni mai esistite, piangerne la dipartita è qualcosa di vano, quanto il rimpianto per una bucolica età dell’oro mai veramente esistita. Nonostante ciò non è lecito disinteressarsi delle anomalie climatiche che investono le nostre fantomatiche mezze stagioni. Non esisteranno le mezze stagioni, ma esistono pur sempre le temperature e le precipitazioni medie stagionali e quest’ultime stanno cambiando.

È plausibile affermare che il fenomeno, già di per sé effimero ed etereo della primavera, sia ulteriormente affievolito dai fenomeni climatici estremi (come ondate di caldo e siccità, incendi boschivi, alluvioni e tempeste tropicali) e, purtroppo, l’incidenza di questi fenomeni, nell’ultimo mezzo secolo, è quintuplicata. Ergo, più che delle mezze stagioni (del caldo di maggio o della pioggia a pasquetta), dovremmo iniziare a preoccuparci del cambiamento climatico in generale.

S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa voce
che salirà le tue scale.

L’importanza della primavera: la stagione che non c’è

È fuori questione l’importanze culturale della primavera, a testimoniarla troviamo caterve di miti, leggende, racconti, canzoni, poesie e luoghi comuni. Non è difficile capire l’importanze della primavera nelle società preindustriali, basate su un’economia di sussistenza e legate ad una cultura contadina. È più singolare invece rilevare l’importanza della primavera (attestata anche, ma non solo, dalla cronica lamentela di cui prima) nelle nostre società: le società dell’opulenza e dei comfort, dei termosifoni e dei condizionatori accesi tutto l’anno, delle serre e del cibo importato. La nostra società non è più regolata dell’incedere delle stagioni, eppure esigiamo la primavera, la mezza stagione. Sarà soltanto per lamentarsi della sua assenza, per potersi spaparanzare a prendere il sole senza patire il caldo o per sfoggiare gli smanicati primaverili?

Forse, ma magari c’è qualcosa di più: un richiamo atavico, una simbologia archetipica, una sensazione rassicurante e inebriante nel vedere il ritorno di Kore/Persefone sulla terra. La primavera forse non è mai esistita, è un invenzione, tutt’al più un bel concetto, un’interpretazione umana dei cicli naturali (che certo non si curano del nostro godimento primaverile), un mito “and yet,—the Spring is in the air“.

Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.

Sarai tu – ferma e chiara.

Cesare Pavese (1951) dalla raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Torino, Einaudi.

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