Dino Buzzati: il “Kafka” italiano

Dino Buzzati è considerato da molti il “Kafka italiano” per via delle atmosfere surreali e fantastiche che permeano i suoi scritti.

In un’intervista del 1962 sul settimanale “Tempo”, Buzzati dirà:

Kafka è Kafka, io sono io. Piantiamola con questa storia.

È innegabile che Buzzati abbia un debito profondo verso lo scrittore boemo, ma questo debito non diminuisce minimamente la sua importanza letteraria: reinterpretando le immagini e le suggestioni di Kafka, Buzzati ha saputo guadagnarsi un posto tra i più importanti esponenti italiani del realismo magico.

La nascita 

Dino Buzzati nasce il 16 ottobre 1906 a San Pellegrino, vicino a Belluno. Nella villa dove la famiglia Buzzati abitava era presente una grande e misteriosa biblioteca contenente migliaia di volumi, perlopiù di argomento giuridico (il padre di Buzzati, Giulio Cesare Buzzati, era un noto giurista) che nutrì le fantasie del futuro scrittore.

Sin dalla giovinezza infatti si manifestano i temi ricorrenti nella sua produzione e i suoi interessi, come la poesia, la musica e il disegno.

La villa di famiglia è considerata da Buzzati come un giardino incantato, con stanze segrete e popolata da fantasmi; inoltre, la presenza delle montagne, a cui Buzzati era profondamente legato, diventano un tema ricorrente nei suoi scritti e un luogo di rifugio per lo scrittore.

Studi e letture

Svolge gli studi regolarmente, al liceo classico Parini di Milano, dimostrandosi diligente e forgiando un’amicizia che durerà per tutta la vita, quella con Arturo Brambilla (con il quale scambia un fitto epistolario).

Legge con passione Dante, Proust, Maupassant e Tolstoj. Apprezza gli scrittori ottocenteschi, che hanno saputo fornire basi solide alla letteratura, ma il suo idolo è assolutamente Omero, creatore di avventure ed emozioni. La letteratura per Buzzati deve saper costruire intrecci, consolidare certezze; non ama particolarmente la letteratura sperimentale, caratterizzata dall’incertezza e poliedrica. Inoltre, la letteratura per Buzzati si basa sull’esperienza e su un talento naturale, non può crescere dalla lettura di altri libri.

Terminati gli studi liceali, accarezza l’idea di iscriversi a Lettere, per poi deviare su Giurisprudenza. Dopo essersi laureato, prestò servizio di leva dal 1926, vicino alle montagne dolomitiche.

Una volta congedato, nel 1928 fece domanda come cronista al Corriere della sera.

Le opere letterarie

Nel 1933 esce il suo primo romanzo, Barnabò delle montagne, a cui segue Il segreto del Bosco Vecchio.

Nel 1940 esce invece il suo più grande successo, Il deserto dei Tartari, inizialmente chiamato La fortezza (il nome fu sostituito su suggerimento di Leo Longanesi, che lo pubblica da Rizzoli).

Prolifica è anche la sua produzione di racconti: nel 1942 pubblica I sette messaggeri, volume che raccoglie diversi racconti usciti precedentemente sui giornali. Negli anni seguenti Buzzati pubblicherà principalmente racconti fantastici, come Paura alla Scala del 1949 e Il crollo della Baliverna del 1954. Da queste tre raccolte Buzzati raccoglierà i racconti più significativi e li riunirà nella raccolta Sessanta racconti, che vincerà il Premio Strega nel 1958.

Nel 1960 pubblica Il grande ritratto, mentre nel 1963 esce Un amore, romanzo con diversi richiami autobiografici.

Negli anni Sessanta si fa evidente la necessità di Buzzati di raccogliere in modo più sistematico la sua produzione novellistica: al tal proposito esce la sua raccolta di racconti più celebre, La boutique del mistero, che raccoglie trentuno racconti dai precedenti volumi.

Le sue ultime opere sono il discusso Poema a fumetti (1969), Le notti difficili (1971) e I Miracoli di Val Morei (1971).

I temi di Dino Buzzati

Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente.

È questo l’incipit de Il deserto dei Tartari, il romanzo più celebre di Buzzati. La vicenda, se così si può definire, è quella del tenente Giovanni Drogo, che passa l’intera vita nella Fortezza Bastiani, ultimo avamposto di un regno fittizio che si affaccia su un’enorme pianura chiamata “il deserto dei Tartari”. La Fortezza, un tempo presa d’assalto dai nemici, ora è solo un edificio in rovina che ha perso del tutto la sua importanza strategica e di cui molti non ricordano nemmeno l’esistenza. Nonostante ciò, Drogo, e tutti intorno a lui, attendono con ansia l’imminente attacco dei Tartari per tutta la vita. Quando finalmente questi arriveranno, per Drogo sarà tempo di combattere una battaglia diversa, decisiva: quella con la morte.

Il sentimento predominante nel romanzo è l’ozio, l’inconsapevolezza dei personaggi dell’inesorabile scorrere del tempo e della routine che consumano l’esistenza.

A proposito, Buzzati affermò in un’intervista:

… dalla monotona routine redazionale notturna che facevo a quei tempi. Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nell’esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva.

Il Kafka italiano

È evidente la somiglianza con il primo segmento de Il Castello di Franz Kafka:

Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello.

Il Castello, pubblicato nel 1926, è l’ultimo dei tre romanzi di Kafka, che insieme a Il processo è rimasto incompiuto.

L’ispirazione dell’ambientazione per Buzzati emerge in modo chiaro, ma l’affinità tra lo scrittore bellunese e Kafka non si esaurisce qui: ad accomunarli è anche un repertorio comune di sensazioni e di atmosfere, tanto che lo scrittore bellunese fu definito “il Kafka italiano”.

Ad animare l’universo kafkiano sono l’allucinazione, l’angoscia, la solitudine. Inoltre, emerge anche la denuncia a una società che ingabbia l’uomo, lo priva dell’identità, lo soffoca, lasciandogli come unica soluzione la morte. Difficile non paragonare il sentimento di minaccia imminente di Drogo alla cappa cupa e asfissiante dei tribunali in cui è invischiato K. in attesa della sentenza ne Il processo.

L’ansia, il vuoto, il tentativo di colmarlo, insieme alla fuga del tempo, sono tutti temi ricorrenti nelle opere di Buzzati, ma, sebbene pieno di ombre, lo stile di Buzzati è più limpido e lontano dalle immagini perverse di Kafka.

Un contributo di Carlo Bo

Il debito di Buzzati nei confronti di Kafka è lampante; tuttavia Giovanni Drogo non sarebbe mai esistito se non fosse stato per la penna del solo Buzzati.

A proposito di questo, Carlo Bo ha affermato:

Ebbene Kafka c’entrava poco con Buzzati, anzi non c’entrava affatto. Il riferimento non era che un nostro infelice tentativo per spiegare un’opera insolita nel quadro della nostra letteratura e, casomai, ci dispensava dal continuare lo scandaglio e l’approfondimento. In effetti per spiegare Buzzati era sufficiente l’idea dell’attesa, del mistero, l’idea che tutta la nostra vita è legata a qualcosa che sfugge alla luce e ai calcoli della piccola economia delle prime reazioni.

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