L’amore come conoscenza: Pasolini e Morante

Per Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante l’amore è una forma di conoscenza. Questo rapporto, che ha radici antichissime, è espresso all’interno delle poesie Il pianto della scavatrice (1957) di Pasolini, tratta da Le ceneri di Gramsci e Solo chi ama conosce di Elsa Morante, tratta da Alibi.

Il Simposio di Platone

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene

Le radici del legame tra amore e conoscenza sono rintracciabili nell’antica Grecia, in particolare nelle opere del filosofo Platone (Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C.).

Nel Simposio, il suo dialogo più celebre, Platone affronta il tema dell’amore e del rapporto che questo ha con la conoscenza e con la bellezza.

È necessario, però, rievocare la dualità platonica fra mondo delle idee (l’Iperuranio) e mondo concreto: per Platone la realtà è imitazione delle idee, immutabili e perfette, incorruttibili e intangibili dalle cose sensibili.

L’anima umana tende al raggiungimento di queste idee. L’amore, che per Platone è una follia, è tuttavia una follia “positiva”, di origine divina, fonte di bene per gli esseri umani.

La bellezza di cui ci si innamora, infatti, è la manifestazione sensibile dell’armonia divina che risveglia il ricordo della Bellezza ideale che l’anima umana aveva contemplato prima di incarnarsi.

Mediante la contemplazione della bellezza, l’uomo si avvicina progressivamente alla bellezza divina, la Bellezza ideale: in questo modo l’uomo riesce a superare i propri limiti conoscitivi.

L’incontro tra Pasolini e Morante

L’incontro tra Elsa Morante e Pasolini avvenne verso la metà degli anni Cinquanta, mediante Alberto Moravia, che Morante aveva sposato nel 1942. Pasolini già ammirava la scrittrice romana dal 1953, quando aveva letto e apprezzato Lo scialle andaluso. La conoscenza tra i due si trasforma presto in un rapporto di complicità, di ammirazione reciproca e di sincera amicizia.

Un filo sottile lega i due scrittori, una comunanza di idee e di tematiche: l’amore verso i ragazzini, le borgate romane e verso la società sottoproletaria. Morante vede in Pasolini un nuovo Rimbaud, che con genialità e originalità aveva completamente rivoluzionato il panorama letterario italiano. Rivoluzione a cui, naturalmente, Elsa Morante non era insensibile.

Fra i due autori si svolge un gioco di corrispondenze e rispecchiamenti, come l’incipit de Il pianto della scavatrice di Pasolini (Solo l’amare, solo il conoscere / conta) che è un omaggio al morantiano Solo chi ama conosce.

Elsa Morante

Vedevo in lei un genere di sguardo che avrei voluto si posasse su di me. Avrei voluto essere guardata come lei guardava i suoi personaggi.

Sono le parole con cui Patrizia Cavalli descrive la scrittura di Elsa Morante.

Il segreto della sua scrittura brillante e infallibile lo rivela la Morante stessa nell’incipit di Alibi: il suo è uno sguardo di puro amore.

Il primo romanzo di Elsa Morante è Menzogna e Sortilegio, pubblicato da Einaudi del 1948. Il titolo è emblematico: il sortilegio è la scrittura con la quale la Morante vuole sconfiggere la menzogna e l’ipocrisia del mondo. Mascherare la verità con la finzione letteraria.

Il suo romanzo più venduto è La storia, che vende 600.000 copie in pochissimo tempo, ma il suo più celebre, pubblicato nel 1957, è senza dubbio L’isola di Arturo, con il quale Elsa Morante vinse il Premio Strega. 

Alibi

Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!

Come a sguardi inconsacrati le ostie sante,

comuni e spoglie sono per lui le mille vite.

Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori

e gli si apre la casa dei due misteri:

il mistero doloroso e il mistero gaudioso.

Io t’amo. Beato l’istante

che mi sono innamorata di te.

Pier Paolo Pasolini

Protagonista indiscusso del panorama letterario dell’Italia in pieno boom economico, nessuno come Pasolini ha saputo comprenderne e interpretarne i cambiamenti sociali e culturali.

La raccolta Le ceneri di Gramsci (1957) è venata da un sentimento di malinconia e di risentimento verso l’Italia che, secondo Pasolini, sta perdendo la sua umanità.

Il pianto della scavatrice non è esente da questa sfumatura malinconia e nostalgica: nel componimento il poeta unisce il sentimento privato, la nostalgia per i luoghi di Roma che un tempo amava e che ora sono completamente trasformati, con la fine dell’Italia che lui conosce.

A rompere il silenzio è il rumore della scavatrice, che spazza via la civiltà preindustriale e lascia il posto all’Italia del boom economico, un’Italia che si sta modernizzando. Il rumore della scavatrice è come un urlo o un pianto, lo stesso del poeta che osserva la scomparsa delle periferia romana a cui è profondamente legato.

I primi versi de Il pianto della scavatrice

I

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognuno, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.

 

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