“Passing”: tra identità e diversità

Due donne camminano per le strade di New York arrivando in un negozio di giocattoli. Nella confusione, una bambola di pezza cade a terra, una ragazza la raccoglie. 

Questi sono i primissimi fotogrammi del debutto alla macchina da presa di Rebecca Hall, in un film elegante ma ambiguo che racconta uno spaccato di vita dell’America razziale dei primi anni 20. Tratto dal romanzo del 1929 scritto da Nella Larsen, Passing è stato presentato in concorso alla 16ª Festa del Cinema di Roma e successivamente distribuito da Netflix. 

La cosa che mi ha colpito di più del romanzo non è stata la metafora razziale, quanto il fatto che questa diventi una metafora di tutti i modi in cui ognuno di noi percepisce la propria identità. Penso che ci siano due storie: una che ci impone la società e una che raccontiamo di noi stessi. Le due a volte possono essere in vero conflitto e penso che Nella Larsen crei costantemente un mondo pieno di contrasti. Abbiamo il bianco e il nero, ovviamente, ma abbiamo anche uomo/donna, omosessuale/eterosessuale, e lei li esplora continuamente.

Due donne

Già dalla prima scena si può comprendere quale sia il tema centrale, quello dell’identità. In un contesto estremamente razzista nei confronti delle persone afroamericane, le protagoniste — due donne così diverse ma allo stesso tempo così simili — avranno modo di affrontare la realtà intrecciando le loro vite in maniera irreversibile. 

Passing è un film in cui la forma crea il contenuto: un bianco e nero fortemente contrastato e puro evidenzia le luci e le ombre, eliminando quasi completamente le sfumature che il colore avrebbe permesso. Questo, a livello narrativo, diventa fondamentale dal momento in cui la differenza tra pelle chiara e pelle scura è quasi impercettibile. Un esordio alla regia ambizioso e che mette in evidenza lo stile raffinato della regista.

In un primo momento lo spettatore si trova spiazzato dalla rivelazione della protagonista Irene “a volte mi fingo bianca”, non cogliendone appieno il vero significato. Hall mette in difficoltà lo spettatore sottraendogli la possibilità di poter giudicare secondo la propria percezione: un annullamento che sul piano semantico fa scaturire diverse considerazioni rispetto al concetto di diversità.

Nella prima parte del film si crea infatti una sorta di aura misteriosa che avvolge le due donne e che il pubblico tenta di decifrare man mano che la sceneggiatura procede. Successivamente scopriamo che Irene (Tessa Thompson), di origini afroamericane e con una pelle olivastra, riesce a cambiare incarnato facilmente grazie al trucco. Stessa cosa vale per Clare (Ruth Negga), la quale si appropria di questo metodo non solo cambiando fisionomia, ma riuscendo addirittura a sposare un facoltoso uomo d’affari esplicitamente razzista. Vivendo tra la menzogna e la paura di essere scoperta, la donna è in preda all’ansia e alla sofferenza, mascherando la sua condizione grazie a una forte personalità. 

Un film di contrasti

La trama di Passing procede a tentoni verso un’analisi introspettiva delle due donne, ritrovatesi dopo anni di silenzio. Irene e Clare coltivano un rapporto di amore e odio che scaturisce con l’invidia reciproca nei confronti di una vita più allettante. La prima vorrebbe essere più seducente e fascinosa, mentre la seconda sogna di non vivere più nella menzogna. Una lenta e inesorabile invasione dello spazio vitale di Irene che rischia di distruggere l’equilibrio famigliare che la donna si era meticolosamente costruita.

Penso che Clare sblocchi la sensualità di Irene. Lei è rigida e vuole sempre fare la cosa giusta. Questa è la critica. C’è un rischio in quel tipo di mentalità: se sei impegnato a esibirti nella versione migliore di te stesso, ciò che desideri può andare perso. Il che si aggrava se sei una donna di colore e operi in un sistema costruito per sopprimerti e reprimerti.

Un racconto lento e senza troppi giri di parole, che mostra con estrema crudeltà le difficoltà a cui erano sottoposte le persone afroamericane in una società bigotta e ancora molto radicata alla purezza di sangue. Non ci si addentra nelle dinamiche politico-sociali, ma si rimane più su un livello puramente relazionale e psicologico, concentrando l’attenzione essenzialmente sulle insicurezze e fragilità del genere femminile. 

Due donne agli opposti anche a livello cromatico: Irene tenebrosa, con abiti sempre sui toni del nero e dalla folta capigliatura scura; Clare di un bianco candido così come i suoi capelli mossi, una pelle di porcellana che si confonde con abiti altrettanto lucenti. Questo potrebbe voler significare purezza, ma come lo spettatore sa, non è così. In realtà è un ossimoro rispetto alla vera natura della protagonista, la quale è intrappolata in un corpo che non la rispecchia e dal quale cerca disperatamente di liberarsi, senza però riuscirci. 

Il cliché netflixiano

Il finale a sorpresa non basta a far cambiare opinione, rischiando addirittura di cadere in un cliché che punta tutto sull’emotività di un target che Netflix conosce bene. Il montaggio cela un momento shock della pellicola lasciando interdetto uno spettatore già confuso e trepidante. La metafora della bambola di pezza iniziale che come Claire scivola dalle mani di Irene, crea una cornice che chiude il racconto ripristinando l’equilibrio iniziale, seppur logicamente diverso.

Nonostante le prove attoriali valgano una menzione d’onore, queste rischiano di venire soffocate da un testo lento e fine a sé stesso, con pochi colpi di scena ed emotivamente distaccato. La fotografia di Eduard Grau, mai nitida e con un tocco di malinconia, non riesce a reggere tutto il peso drammaturgico della pellicola, che dovrebbe essere assegnato anche a una sceneggiatura audace e seducente. Elegante ma con poco carattere.

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