Settimana lavorativa corta: una soluzione?

“Io voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro” Bertrand Russell, Elogio dell’ozio

Prendiamo come esempio un lavoratore medio d’ufficio in Italia: otto ore al giorno per cinque giorni a settimana.

Settimana breve

Non si tiene conto del fatto che lavorare di più non presuppone necessariamente una maggiore qualità del lavoro” William Griffini

Può capitare a tutti di vivere i cosiddetti “tempi morti”, quei momenti cioè della giornata in cui un lavoratore ha terminato tutte le tasks del giorno e aspetta solo le 17 o le 18 per tornare alla propria casa.

La svolta della settimana breve può essere una soluzione a questa frenesia di non perdere tempo, di sfruttare ogni momento della nostra vita nel modo migliore di sempre. Chiamatelo Carpe Diem o citate D’Annunzio:”Bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte”; si vuole godere di ogni momento della vita.

Godere di ogni momento della vita significa fare ciò che ci piace, che sia passare tempo con gli amici, con la famiglia, fare sport, praticare il nostro hobby, ma significa anche lavorare efficientemente ed efficacemente, e sentirsi soddisfatti dei propri risultati.

Enjoy, perché è da qui che si riduce il rischio di burnout.

L’inizio esemplare: il caso islandese

Ci troviamo nel 2015 e proprio per evitare il burnout, in Islanda, il governo ha deciso di testare gli effetti della settimana corta: quattro giorni lavorativi e tre liberi, il tutto al netto della medesima paga ma per un numero di ore di lavoro minore rispetto a prima.

Nello specifico, a Reykjavík erano 2.500 i lavoratori coinvolti in questo esperimento: da quaranta ore di lavoro a settimana sono passati a non oltre trentacinque o trentasei ore. I lavoratori coinvolti erano gli impiegati pubblici, servizi sociali, scuole materne e ospedali.

Qual è la risposta dei ricercatori (Autonomy e della Association for Sustainability and Democracy) circa questo progetto sperimentale condotto fino al 2019? I risultati sono straordinari: la produttività dei lavoratori è o rimasta inalterata o addirittura aumentata. Inoltre, i dipendenti islandesi coinvolti in questo esperimento hanno dichiarato di aver migliorato il bilancio fra tempo trascorso al lavoro e quello dedicato alla vita privata, e perciò hanno affermato di sentirsi meno stressati.

Una generalizzazione inapplicabile 

Dopo gli straordinari risultati dell’esperimento islandese, anche altre nazioni hanno deciso di provare lo stesso, scommettendo cioè sulla riduzione di alcune ore, o giorni lavorativi, al fine di beneficiare di una maggiore produttività aziendale, ma anche per il miglioramento stesso del benessere dei loro dipendenti. Dall’Islanda, l’esperimento ha varcato i confini spagnoli, italiani, scozzesi, americani, giapponesi e altri ancora. Le situazioni, però, non sono proprio uguali ovunque.

In Spagna, per esempio, le condizioni economiche non sono esattamente le stesse di quelle islandesi. Per questo motivo, il Ministero dell’industria spagnola sta valutando l’idea di stanziare 50 milioni di euro per poter aiutare le imprese a prendere parte a questo progetto, senza dover ridurre gli stipendi insieme alle ore lavorative. In Spagna, come in Italia, il dibattito rimane aperto, ma d’altronde si sa:

Non esiste una ricetta che vale per tutti i Paesi e per tutti i settori ma il punto fermo, universale, è la necessità di redistribuire il lavoro in maniera equa: abbiamo costruito una ‘società duale’, in cui la metà degli individui lavora troppo e l’altra metà non lavora affatto. Bisogna dunque trovare il modo per ‘spalmare’ gli aspetti negativi del lavoro su un numero maggiore di persone e condividerne gli effetti positivi. Ridurre gli orari, in questo senso, significa liberare tempo di vita. Ma la riduzione deve avvenire a parità di salario, solo così si aggredisce alla radice il cancro del nostro tempo: la diseguaglianza.

Speculazione e conseguenze

Una delle prime domande che potrebbe sorgere a seguito della diminuzione del numero di ore o di giorni è: come compensare questa riduzione degli orari? Secondo l’esperto, Giorgio Maran, una possibile soluzione potrebbe essere quella di aumentare il numero delle persone occupate: “A beneficiare della diminuzione della disoccupazione sarebbero inoltre le finanze pubbliche, che dovrebbero sostenere minori spese sociali. Per non parlare dei benefici sulla domanda interna”.

Inoltre, un ulteriore vantaggio potrebbe essere in termini ambientali: ovverosia, una settimana lavorativa breve comporta una diminuzione degli spostamenti casa-lavoro, una diminuzione del traffico, quindi del riscaldamento e dell’illuminazione in molti luoghi di lavoro.

Ma stiamo attenti, se si avvicinano questi due vantaggi, si potrà vedere come in realtà un maggiore tasso di occupazione comporti effettivamente dei maggiori spostamenti: più persone hanno un lavoro, più persone devono andare al lavoro.

E che ne è allora del lavoro agile, la grande scoperta dell’era da Covid-19? Non abbiamo imparato niente? Ma certo, la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento dell’occupazione non sono più un così grande problema ambientale se gli impiegati lavorano da casa.

Ma se si guarda più in profondità, l’home office può essere più un veleno che un antidoto, e non solo per quanto riguarda l’ambiente. Da una parte, a livello di spostamenti, certo, il traffico sarà minore, ma a livello di illuminazione, gli effetti collaterali ambientali saranno maggiori. Ma anche spostando l’attenzione sull’umano, la situazione non è tanto più semplice.

E non serve andare tanto lontano, basti pensare alla soluzione portoghese: una volta che l’impiegato ha terminato la sua giornata lavorativa, il manager non può più mandare email o chiamare, se non per casi di emergenza, fino al giorno lavorativo seguente. Perché si è arrivati a tanto in Portogallo? “Per tutelare il diritto alla disconnessione delle persone e proteggere la loro [dei dipendenti] vita familiare”. E allora? A che punto siamo arrivati?

E la produttività?

Ritornando all’esperimento condotto in Islanda, Giorgio Maran afferma:

È evidente che la produttività non dipende da quanto lavoriamo, ma da cosa facciamo e come lo facciamo. E il discorso non vale soltanto per i lavori d’ufficio. Prendiamo, per esempio, le persone che si occupano di cura della persona: durante l’emergenza coronavirus, abbiamo visto il personale sanitario affrontare carichi di lavoro enormi e turni interminabili. Non può essere la normalità. Anche in questi ambiti ridurre l’orario lavorativo a parità di stipendio permetterebbe di ottenere in cambio un servizio migliore per il cittadino.

In generale, ridurre l’orario lavorativo è una soluzione efficiente sia in termini di produttività aziendale, sia in termini di benessere personale. Nello specifico però, questa situazione può assumere forme e direzioni diverse, con le relative conseguenze e in termini ambientali e in termini umani. In sostanza, generalizzare non è la soluzione adatta.

Benché l’opzione della riduzione porti effettivamente a dei risultati positivi in ambito lavorativo e in ambito personale, bisogna riconoscere che ci sono casi specifici, e che questi casi specifici vanno studiati, ci si deve riflettere e bisogna tutelare ogni specifico caso, poiché ognuno di essi implica dei diritti, del lavoratore e della persona.

 

CREDITI:

Copertina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.