La noia per Leopardi: il più sublime dei sentimenti umani

Nella società odierna, frenetica e iperproduttiva, un sentimento come quello della noia non sembra trovare posto. La mente è sempre alla ricerca di stimoli, di occupazioni e di obbiettivi da completare che possano recare soddisfazione immediata alla persona. Le ventiquattro ore della giornata sono considerate uno spazio da riempire con elenchi interminabili di compiti da portare a termine e la necessità di lasciare un po’ di tempo vuoto, per il semplice vivere, viene subito bollato come pigrizia. L’importanza della noia fu invece riconosciuta da Giacomo Leopardi, che le conferì un valore estremamente positivo, caratteristico dell’essere umano.

Cos’è la noia?

nòia s. f. [prob. dal provenz. nojaenoja; v. noiare e annoiare]. – 1. a. Senso di insoddisfazione, di fastidio, di tristezza, che proviene o dalla mancanza di attività e dall’ozio o dal sentirsi occupato in cosa monotona, contraria alla propria inclinazione, tale da apparire inutile e vana: […] Anche, il senso di sazietà e di disgusto che nasce dal ripetersi di cose uguali o uniformi: […] di cosa che ingenera fastidio, senso di nausea, o addirittura di avversione.

Così recita la voce noia di Treccani. L’impressione che se ne ricava è generalmente negativa: il sentimento della noia deriverebbe o da una mancanza di occupazione, percepita come uno spreco che genera fastidio e generale frustrazione, o, al contrario, da un’occupazione priva di stimoli e spunti di interesse per l’individuo.

Il tedium vitae di Lucrezio

La noia è un argomento centrale fin dall’antichità, in filosofia, in letteratura e anche in medicina: Galeno, medico romano il cui punto di vista fu dominante fino al Rinascimento, collegava la malinconia e il tedio a un eccesso di bile nera, uno dei quattro umori a cui corrispondono quattro temperamenti.

Invece Lucrezio, l’erede romano della filosofia epicurea, nel terzo libro del De Rerum Natura espone il concetto di tedium vitae, descrivendolo come una vera e propria condizione esistenziale dell’uomo, che sente nell’animo un fastidio, un peso, qualcosa che lo fa sentire insoddisfatto e che lo trascina in luoghi diversi alla ricerca della felicità.

Seneca e lo Stoicismo

Quella descritta da Lucrezio è l’immagine di un uomo che fugge da se stesso, la medesima che ritorna nel De tranquillitate animi di Seneca, massimo esponente romano dello Stoicismo. Scrive infatti Seneca:

[…] perciò, tolte di mezzo le gioie, che proprio gli impegni offrono a chi si muove di qua e di là, l’animo di costoro non sopporta la casa, la solitudine, le pareti, contro voglia vede di essere stato lasciato solo con sé stesso. Di qui nasce quella noia e quella scontentezza di sé, quel rivoltolarsi dell’animo, che non si placa in alcun luogo, quella sopportazione malcontenta e malata del proprio ozio […]

Blaise Pascal

Sulla stessa scia si delineano le concezioni espresse dal filosofo e matematico francese Blaise Pascal nei suoi Pensieri:


Niente per l’uomo è insopportabile come l’essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un’occupazione. Egli avverte allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Subito si leveranno dal fondo della sua anima la noia, la malinconia, la tristezza, l’afflizione, il dispetto, la disperazione.


L’uomo è incapace di godere dell’otium, come facevano invece i ricchi aristocratici romani nel dedicarsi allo studio e ad attività che recassero una sincera serenità interiore. Per Pascal l’uomo riempie le sue giornate di impegni e occupazioni nella speranza di risultarne talmente stordito da perdere la consapevolezza della propria infelicità e riuscire così a sfuggire a se stesso.

Il pendolo di Arthur Schopenhauer

Nella concezione filosofica di Arthur Schopenhauer emerge l’azione inesorabile della Volontà di vivere, una forza incessante che porta l’uomo a desiderare continuamente. Questi desideri sono tentativi di sopperire a un senso di mancanza: se non realizzati causano sofferenza, ma se anche vengono realizzati risultano essere un semplice alleviamento della sofferenza che era provocata dalla mancanza. La vita dell’uomo quindi è contrassegnata da un perenne desiderio verso qualcosa che gli manca, e anche quando, per breve tempo, non è spinto da qualche bisogno, la sua esistenza è marchiata dalla noia e dalla vacuità. A questo proposito, è celeberrima l’immagine del pendolo:

La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia… Il godimento è solo un punto di trapasso impercettibile nel lento oscillare del pendolo.

Lo Zibaldone di Giacomo Leopardi

LXVIII.

La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccòrne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che siì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.

La noia per Giacomo Leopardi

La noia è un tema ricorrente in tutti gli scritti di Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837), dal suo Zibaldone dei Pensieri alle poesie. A differenza della concezione attuale, la noia per Leopardi non è affatto un sentimento negativo. Questa tristezza mista a frustrazione è una diretta conseguenza della perenne tensione dell’uomo verso l’Infinito, verso l’oltre, verso la perfezione e la completezza. Per questo è definito “il più sublime dei sentimenti umani e il maggior segno di grandezza e di nobiltà, perché è la prova tangibile dell’aspirazione dell’animo umano a un piacere illimitato che gli è affine”.

Giacomo Leopardi

 

Il mondo di oggi si sa annoiare?

La società odierna, paradossalmente, sembra più affine alle concezioni espresse da Lucrezio, Seneca, e Pascal (nonché da altri giganti della letteratura come Flaubert nel suo Madame Bovary e da Charles Baudelaire con l’emblematico spleen) piuttosto che a quella di Leopardi. Sembrerebbe che l’individuo contemporaneo sia capace di concepire il tempo solo come uno spazio da riempire a tutti i costi, o che addirittura ne sia terrorizzato: lo scorrere delle lancette sull’orologio ricordano a tutti che la durata della vita è limitata, e il giudizio della società sulla quantità di ore spese a riposare invece che a produrre pende sempre sulla testa come una spada di Damocle. Lo stile di vita frenetico, il perenne confronto con gli altri che sembrano sempre un passo avanti, la corsa contro il tempo nel raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, portano poi a stupirsi della ciclicità delle stagioni, della bellezza del dolce far niente, della peculiarità di quei luoghi dove il tempo sembra arrestarsi.

Muoversi costantemente, non sprecare nemmeno una goccia del proprio prezioso tempo, iterare un’attività dopo l’altra per scacciare la malinconia e la noia, finiscono per farci sprofondare nella monotonia sempre di più, come in un tentativo di uscire dalle sabbie mobili: forse, per sfuggire davvero alla noia, occorrerebbe fermarsi.

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