I referendum abrogativi andrebbero cambiati?

La domanda che ci si pone dopo l’ennesimo quorum non raggiunto lo scorso 12 giugno è: il sistema dei referendum abrogativi va cambiato?

Che cosa è un referendum?

Lo scorso 12 giugno si sono tenute le votazioni per i cinque referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dai Radicali. Gli stessi partiti politici avevano anche proposto un sesto referendum sulla responsabilità civile dei magistrali che però, come quelli sull’eutanasia attiva e sulla cannabis, era stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale.

I referendum in questione chiedevano l’abrogazione totale o parziale di leggi esistenti. Per essere valido deve però raggiungere il cosiddetto quorum, ovvero deve partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto. In seguito perché l’oggetto del referendum venga effettivamente abrogata, la maggioranza dei voti deve essere espressa con un “si”.

Alcuni dei temi trattati tra l’altro intervenivano su questioni affrontate già nella riforma strutturale della Giustizia proposta dalla Ministra Marta Cartabia.

I cinque temi trattati

Elezione dei membri del Csm

Questo quesito riguardava la modifica di presentazione delle candidature dei magistrati a far parte del Csm (l’organo di autogoverno della magistratura). Ne fanno parte, per diritto, tre persone: il presidente della Repubblica, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri componenti vengono eletti per due terzi da tutti i magistrati e per un terzo dal Parlamento. Se un magistrato volesse proporsi come membro del Csm deve però raccogliere 25 firme di altri magistrati per sostenere la sua candidatura.

La proposta chiedeva di eliminare la raccolta firme e di fare in modo che il singolo magistrato che volesse proporsi come membro del Csm avesse la possibilità di proporsi autonomamente , senza quindi l’appoggio di altri magistrati e soprattutto delle correnti politiche interne al Csm.

Valutazione della professionalità dei magistrati

I magistrati del Csm vengono valutati ogni quattro anni dal Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dai Consigli giudiziari. Entrambi questi organi sono formati da magistrati e da membri “laici” (avvocati e talvolta docenti universitari in materie giuridiche). I secondi però sono esclusi dal dare giudizi sull’operato dei magistrati, quindi solo i magistrati possono giudicare gli altri magistrati.

Il quesito richiedeva proprio che la componente “laica” del direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari potesse esprimere anch’essa una valutazione sull’operato dei magistrati.

Separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati

La funzione giudicante è quella del giudice che è chiamato a giudicare ed è quindi un super partes. La funzione requirente è invece quella del pubblico ministero, che durante un processo sarebbe il magistrato che rappresenta l’accusa. Ad oggi i magistrati durante la loro vita professionale possono passare da una funzione all’altra non più di quattro volte e con molte limitazioni.

Questo quesito serviva proprio per separare le due funzioni in modo che a inizio carriera il magistrato scegliesse quale delle due parti volesse rappresentare senza più poter passare da una all’altra.

Limitazione delle misure cautelari

Questo quesito chiedeva l’abrogazione dell’ultima parte dell’articolo 274 del codice di procedura penale che elenca i casi in cui è giustificata l’applicazione di misure cautelari come per esempio la custodia preventiva.

In caso di vittoria del “si” per i reati meno gravi (cioè quelli che prevedono una pena esclusiva massima inferiore a cinque anni) sarebbe stata eliminata la pratica della custodia preventiva, in quanto alcuni sostengono che da strumento di emergenza possa essersi trasformato in pratica abusata.

Abolizione del decreto Severino

Il decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012, meglio conosciuto come “decreto Severino”, stabilisce l’incandidabilità alle elezioni politiche o amministrative e il divieto di ricoprire incarichi di governo per coloro che sono stati condannati in via definitiva per determinati reati.

Nel referendum veniva chiesta l’abrogazione di questo decreto.

Affluenza e partecipazione

Al referendum del 12 giugno si è registrata la più bassa percentuale dei partecipanti della storia repubblicana: solo il 20,8% degli aventi diritto si è presentato al voto. Effettivamente un risultato di questo tipo era stato ampiamente previsto, basti pensare che dal 1997 ad oggi soltanto un referendum abrogativo ha raggiunto il quorum necessario, ovvero quello del 2011 che conteneva quesiti sull’acqua pubblica e sul nucleare.

L’affluenza ,al contrario di ciò che si possa pensare, non è in calo solo in Italia, ma in molte democrazie europee. Ci si chiede perciò se non sia giunto il momento di intervenire cambiando magari alcune parti della legge costituzionale che regola i referendum abrogativi.

Le tematiche

La questione relativa alle tematiche trattate è un pò controversa. Si stima, infatti, che i quesiti sulla cannabis e sull’eutanasia che sarebbero dovuti rientrare nel referendum domenica scorsa avrebbero senza dubbio alzato l’affluenza, se non fossero stati giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale. Sui quesiti legati alla giustizia era invece più complicato formarsi una opinione in quanto sono stati giudicati troppo tecnici persino dai giuristi stessi.

Riccardo Magi, presidente di +Europa e promotore del referendum per la legalizzazione della cannabis, è convinto che l’astensionismo abbia troppo peso nei referendum abrogativi. Lui proporrebbe di fissare i quorum ai si anziché agli aventi diritto, cioè se il 25 percento degli aventi diritto vota si il referendum potrebbe essere considerato valido. In questo modo chi la pensa in modo diverso anziché sabotare la votazione non presentandosi dovrebbe andare a esprimere la propria opinione.

Non solo le tematiche

Barbara Pisciotta, docente di politica internazionale e di processi di democratizzazione all’Università di Roma Tre, afferma che la questione della scarsa affluenza vada contestualizzata. È vero che l’Italia ha visto scendere l’affluenza alle urne rispetto a trenta o quarant’anni fa, ma a differenza di altri Paesi in misura molto minore.

Secondo Pisciotta, infatti, il problema si racchiude in tre ambiti, il primo dei quali l’importanza degli argomenti trattati, perché essendo troppo tecnici diventa difficile avvicinarli ai cittadini. A tal proposito i referendum che suscitarono più partecipazione furono quelli con tematiche sociali più vicine ai cittadini come ad esempio: il divorzio, l’aborto o le centrali nucleari. Il secondo fattore è quello della pubblicizzazione dei referendum: se manca l’informazione è più probabile che il quorum non venga raggiunto. L’ultimo ambito è quello della “politicizzazione” dei quesiti, cioè quando i partiti usano i quesiti come argomento di scontro, può determinare la scarsa affluenza alle urne.

 

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