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Ansia da social e pensiero unico

“Mi astengo dall’usare il cellulare per 24 ore alla settimana. Mentre lo faccio come un imperativo religioso, l’esperienza è liberatoria, il sollevamento di un peso”. Le parole di Elan Koshner, studente di finanza all’università Yeshiva, pubblicate sul «Wall Street Journal», registrano un bisogno sempre più diffuso tra gli utenti social, soprattutto tra i giovani. Ma senza il requisito religioso, continua Elan, sarebbe difficile spegnere il telefono anche solo per poche ore.

La sensazione generale è quella di perdere qualcosa quando non si è online. Negli ultimi dieci anni, l’ascesa dei social media ha cambiato radicalmente il modo in cui interagiamo gli uni con gli altri. Possiamo condividere foto di eventi importanti della vita con amici e familiari in pochi secondi. Possiamo entrare in contatto con coloro che condividono i nostri interessi e coltivare nuove relazioni con le persone, non importa dove esse si trovino.

Quello che si è creato in così poco tempo è però un luogo in cui le immagini e gli aggiornamenti continui che vediamo a proposito delle vite degli altri possono creare aspettative non realistiche, sentimenti diffusi di inadeguatezza, ansia e paura del giudizio altrui. Una ricerca condotta dall’Eastern Illinois University ha esaminato il possibile legame tra ansia sociale e uso dei media, proponendosi di esaminare i possibili mediatori cognitivi di questa relazione, concentrandosi sulla paura di essere tagliati fuori (FOMO), la paura della valutazione e il confronto sociale, dimostrando che se si soffre già di ansia sociale o depressione, i social media possono potenzialmente peggiorare i sintomi.

Le vite degli altri

Per loro natura, i social media rendono altamente probabili i confronti sociali. L’uso dei “mi piace”, “follow” e “commenti” è impostato per guidare tali confronti, dove il conteggio di questi numeri agisce come un potente rinforzo, sia in positivo che in negativo. Le foto vengono modificate, i corpi vengono alterati e le macchie cancellate. Le rappresentazioni della propria vita e di quella degli altri pubblicate online sono il più vicino possibile alla perfezione, lasciando sempre meno spazio all’autenticità.

Il raggio virtualmente illimitato della comunicazione sui social, inoltre, aumenta esponenzialmente la possibilità di essere attaccati, diventare bersagli di odio e offese. La possibilità che un messaggio umiliante o violento possa essere visto e condiviso da un numero potenzialmente illimitato di persone, moltiplicandosi e diffondendosi con una velocità che al di fuori del web non sarebbe possibile, amplifica la portata dell’atto di bullismo e gli effetti su chi lo subisce.

Persino delle autentiche star dei social media come Harry e Meghan, i duchi di Sussex, scottati dall’hate speech sui social si sono decisi a fare a meno di Facebook e Twitter. Un anno dopo l’uscita volontaria dal cerchio dei Royals, hanno deciso di dire addio ai social media, almeno con gli account personali, per comunicare con il mondo. La presenza sui diversi social è diventata incompatibile con il nuovo ruolo della coppia in America. Sui due ha pesato l’assalto dei troll, l’incitazione all’odio, la piaga dell’hate speech. In questo contesto, Meghan non ha potuto fare a meno di esprimere la sua amarezza per essere stata nel 2019 la persona più presa di mira dai troll online.

Tutta colpa della rete?

Individuare una strategia di contrasto all’hate speech coerente ed efficace è tuttavia complesso, malgrado anni di proposte, linee guida, ricerche. Ancora più complicato è provare se la potenza e l’impatto dei social media abbiano contribuito alla formulazione di uno specifico discorso d’odio, o se invece abbiano solamente reso più visibile ciò che già esisteva. L’hate speech difatti non è un fenomeno nuovo, ma le sue modalità sono certamente mutate nel tempo.

Negli ultimi anni sembra essersi imposta sulla scena un’aggressività verbale individuale e individualizzata, più veloce, senza sovrastrutture e per questo anche meno incanalabile e, quindi, più difficile da prevedere e mediare. Un’aggressività sempre più virtuale, capace di fare rete, ma con ricadute reali, laddove la polarizzazione “noi versus loro” si traduce in strategie di vicinanza e lontananza che chi scrive o parla utilizza per posizionare il proprio discorso rispetto ai discorsi degli altri, e per fornire una propria interpretazione di fatti e opinioni.

Difatti, internet crea ambienti sempre più ristretti che determinano la nascita di un’enorme quantità di camere d’eco, luoghi in cui ciascuno si ritaglia sui social uno spazio che comprende esclusivamente i propri interessi, ma che implica la perdita di visione sui punti di vista differenti. Il risultato è così quello di una grande incomunicabilità e mancanza di possibilità di confronto, dove può esistere solo un’unica posizione giusta e un’unica sbagliata.

Il gusto perduto del dialogo

Si possono avere ancora, allora, delle opinioni ed esprimerle pubblicamente senza essere perseguitati?

L’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione”. Tuttavia, come dimostrano diversi fatti di cronaca recenti, come nel caso del famoso servizio andato in onda su Detto Fatto, sempre più persone sono oggi perseguitate per le proprie azioni o idee, finendo per perdere il lavoro e la reputazione quando si discostano dal pensiero maggioritario, senza essere peraltro state giudicate da un tribunale.

Le loro prese di posizione, anche inconsapevoli, in particolare sulle reti sociali, le espongono a una tempesta mediatica, alla perdita della loro funzione e a una sorta di messa al bando. Un tribunale parallelo impone la propria legge, quella della pressione mediatica.

Tuttavia, Twitter, Facebook e gli altri social media non sono l’origine del discorso d’odio e del pensiero unico, che esiste da tempo e in modo stratificato. L’origine è in ogni caso l’utente, che produce e diffonde con facilità opinioni fortemente polarizzate, cariche di disprezzo, spesso impermeabili a qualsiasi tipo di confronto.

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