Da Omero al patriarca Kirill: la guerra e la “mollezza” del nemico

Questa guerra è una guerra di propaganda incrociata, di informazione: si combatte a colpi di news, di agenzie stampa, di post. Quante volte abbiamo sentito ripetere questa banale litania dal 24 febbraio in avanti, a proposito dell’invasione russa in Ucraina. Quante volte ci siamo convinti che sì, questa volta, nella prima guerra successiva alla rivoluzione tecnologica, “la prima vittima è la verità”.

Ma l’uomo fa presto a dimenticare, a sottovalutare. Come ha affermato qualche anno fa la premier finlandese Sanna Marin, “tendiamo a obliterare il passato, sopravvalutare il presente e ignorare il futuro”. Stiamo confermando questo assioma ogni volta che ci convinciamo che nel presente conflitto stia accadendo qualcosa di assolutamente inedito, nuovo.

Accade rispetto al massacro dei civili: come se Aleppo non fosse mai esistita. Oppure quando si parla di assedio: come se Sarajevo fosse un nome confinato nelle profondità del secolo breve. Sta accadendo anche rispetto alla guerra della propaganda: come se l’arte della demonizzazione dell’avversario non ci fosse stata tramandata dai nostri più illustri e venerati predecessori, i classici.

Le parole del patriarca Kirill

È giusto combattere in Ucraina, è una guerra contro la lobby gay. Per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass, dove c’è un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale. Oggi esiste un test per la lealtà a questo potere, una specie di passaggio a quel mondo ‘felice’, il mondo del consumo eccessivo, il mondo della ‘libertà’ visibile. Sapete cos’è questo test? È molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay. Se l’umanità riconosce che il peccato non è una violazione della legge di Dio, se l’umanità concorda sul fatto che il peccato è una delle opzioni per il comportamento umano, allora la civiltà umana finirà lì.

Il patriarca Kirill

Sono le parole scelte dalla massima autorità del mondo ortodosso, il patriarca Kirill, per sostenere la legittimità, anzi la necessità storica e morale della guerra russo-ucraina. Insomma, il nemico, in questo caso l’Occidente, viene dipinto come il veicolo di ogni perversione. L’omosessualità come quintessenza di quella “mollezza” effeminata, di quel cedimento dei valori morali trasmessi da Dio all’uomo che è la premessa, anzi la giustificazione, dell’aggressione.

Se Kirill edifica le fondamenta ideologiche, predispone il retroterra morale e la giustificazione storica del conflitto, gli autori della letteratura greca e latina erano abituati a mettere in piedi un’eziologia a posteriori della vittoria del proprio popolo, ma soprattutto della sconfitta dell’avversario. Il nemico era raffigurato secondo un principio di alterità, la sua inferiorità militare era il prodotto consequenziale dell’effeminatezza, dell’eccessiva importanza attribuita all’estetica, al vestiario, ai gioielli.

Omero, l’Iliade e i barbari ingioiellati

Troviamo un’efficace dimostrazione di tale schema argomentativo nel secondo libro dell’Iliade, nei versi compresi tra 867 e 875. Significativamente, troviamo qui, e più precisamente al verso 869, la prima attestazione del termine “barbaròs” nella lingua greca. In questo libro ci sono due segmenti narrativi molto ampi di carattere catalogico; vi è il “Catalogo delle navi”, lista di tutti gli alleati che avevano seguito Agamennone a Troia, e un analogo Catalogo che riguarda gli alleati di Priamo, gli avversari. Nell’ambito di questa seconda sezione, troviamo un’indicazione a proposito dei Cari, popolazione probabilmente indoeuropea ma certo non greca, che ancora in età storica viveva nell’entroterra dell’Asia Minore, a strettissimo contatto coi Greci.

Omero

Vi si dice che ad abitare quella città che poi diventerà Mileto sono “barbarofoni”, cioè “parlanti barbaro”. Sembrerebbe che l’accezione sia neutra, scevra di una connotazione negativa, deteriore. Ma poco oltre il sospetto che il termine sia usato invece in senso spregiativo si fa molto forte: si parla di uno dei due capi dei Cari, di nome Naste, dicendo che costui se ne andava in battaglia tutto ingioiellato e ricoperto d’oro, ma ciononostante non ebbe salva la vita, e pertanto viene definito “sciocco”, “stolto”. È estremamente significativo il fatto che il termine “barbaro”, “straniero”, nella sua primissima accezione sia correlato proprio alla “mollezza”, all’effeminatezza dei costumi, dei modi di comportamento.

Gli esempi

Gli esempi potrebbero proseguire oltre. Si va da Sallustio, affascinato dal valente condottiero Giugurta, che a differenza del suo popolo, i Nùmidi, mostra un fare integerrimo e mascolino, alle violente reprimende di Catone il Censore contro i componenti del circolo degli Scipioni, i cui comportamenti si connotano per l’adesione al modus vivendi greco e l’abbandono del mos maiorum. Il caso più celebre di propaganda bellica che oggi definiremmo xenofoba che riguardi il mondo latino è tuttavia quello che vede protagonisti Marco Antonio e Cesare: l’ex braccio destro aveva tradito il costume degli antenati, si era compromesso sposando una donna egizia, Cleopatra, uscendo trasformato da tale frequentazione.

La Germania di Tacito

L’esempio più interessante, che stimola ulteriori riflessioni sul nostro tempo, è però quello del Tacito della Germania, che con un’attitudine etnografica sconosciuta alla media della produzione storiografica latina (ma non a Cesare) descrive una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta e compromessa dal vento della modernità. Quello che Tacito innesta, è un implicito confronto tra Germani e Romani: l’esaltazione dell’indomita forza, del valore guerriero dell’avversario non è un monito contingente, atto a rendere i connazionali edotti della pericolosità dell’avversario, suona piuttosto come un avviso per i posteri, promemoria della passata grandezza (“ah, quando eravamo come i Germani…”) e invito a recuperarla prima che sia troppo tardi.

Federico Rampini

La caduta dell’Impero

Ecco, un esempio del genere fa ragionare su come da parte nostra, dell’Occidente inteso in senso largo, si offra sempre più spesso una sponda a interpretazioni aberranti come quella del patriarca Kirill. Le riflessioni sulla “caduta dell’Impero”, inteso come impero democratico, occidentale, euro-anglofono, sono già cominciate anche “dalla nostra parte”.

Il declino dell’Occidente è uno spettro che ci angoscia da tempo. Ora, però, succede qualcosa di nuovo: è in corso la nostra autodistruzione”, scrive Federico Rampini nel suo Suicidio occidentale. Il giornalista del «Corriere della Sera» associa tale declino a fenomeni come la cancel culture, al ripensamento della nostra storia e dei nostri valori che essa comporterebbe. Gli accorti avvertimenti di chi prova a salvarci a un passo dal baratro? O gli ultimi sussulti di una mentalità paternalista e retrograda? Il solo porci una domanda del genere apre gli spiragli terrificanti del dubbio.

FONTI

Il Giorno

G. B. Conte, Profilo storico della letteratura latina, Le Monnier, 2020

Omero, Iliade, Einaudi, 2014

F. Rampini, Suicidio occidentale, Mondadori, 2022

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.