Intercettare le diseguaglianze: l’indice di dissimilarità e quello di segregazione

La segregazione razziale ed etnico-linguistica è un fenomeno che acquista declinazioni differenti per fisionomia ed entità a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche in cui lo si esamina. Tuttavia, indipendentemente dalla forma che assume, può avere effetti devastanti: la ghettizzazione, la radicalizzazione, la sperequazione economica, la nascita di conflitti intestini, il terrorismo. Per monitorarla, e quindi per cercare di prevederne gli effetti più nefasti, la statistica ha approntato alcuni indici.

Uno di questi indici è quello di dissimilarità. In uno studio patrocinato dall’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, Marino e De Maria lo definiscono come un parametro utile a misurare “il grado di dissimilarità della distribuzione di un ‘gruppo’ rispetto a un gruppo di riferimento”. La tendenza alla segregazione è tipica di qualsiasi minoranza etnica: si pensi agli immigrati, che nel Paese di approdo sono soliti costituire delle comunità che replicano quelle in cui erano inseriti in patria. Accadde per esempio agli italiani che a inizio Novecento costituirono molte “Little Italy” negli Stati Uniti, succedeva fino a qualche anno fa con le “China Town” di diverse metropoli europee e atlantiche.

Il funzionamento dell’indice di dissimilarità

L’indice di dissimilarità varia da 0 a 1: allo 0 corrisponde una distribuzione che viene definita “uniforme”, all’1 la cosiddetta “segregazione totale”. Dematteis e Lanza prendono in considerazione una rosa di esempi, e osservano come il dato più elevato negli USA sia quello relativo alla popolazione afroamericana; a Chicago, per esempio, il parametro raggiunge quota 88 su 100.

Si osserva anche come il dato relativo agli immigrati europei sia decisamente migliorato nell’ultimo secolo: si cita il caso degli italiani di Toronto, gradualmente trasferitisi dal quartiere di Spadina Avenue, attiguo al porto, a quello semicentrale di Saint Clair. I due studiosi aggiungono poi gli esiti delle rilevazioni sulle comunità asiatiche e africane in Gran Bretagna, dove i punteggi variano, a seconda delle città, da 40 a 70, e in Germania, dove si va da 20 a 45.

Gli altri indici: segregazione, isolamento, Location Quotient

Altri indici analoghi a quello di dissimilarità sono l’indice di segregazione spaziale, l’indice di isolamento e infine il Location Quotient. L’unica differenza tra l’indice di dissimilarità e quello di segregazione, segnalano Marino e De Maria, è che se il primo confrontava la distribuzione di una minoranza rispetto a un altro gruppo, il secondo la confronta con l’intera popolazione. L’indice di isolamentoesprime la probabilità di trovare un individuo della stessa nazionalità in una particolare area geografica di interesse”. Mentre il Location Quotient ha l’obiettivo di “confrontare la concentrazione di un gruppo X in ogni località, rispetto alla concentrazione dello stesso gruppo che mediamente si rileva su scala globale”.

Una banlieue nel nord di Parigi

Perché usare questi indici?

L’importanza di usare strumenti come questi indici riguarda la possibilità di prevenire un fenomeno come la ghettizzazione, o di intercettarlo in tempo utile a evitarne gli effetti più nocivi. Come riportano sempre Lanza e Dematteis, un ghetto è una comunità contraddistinta da indici di dissimilarità e di segregazione elevatissimi, che tendono ad aumentare o quantomeno a rimanere costanti.

Si presenta il caso, studiatissimo, dei ghetti statunitensi, in cui la “ghettizzazione” procederebbe secondo fasi successive. La prima ha a che fare con un’inversione di tendenza repentina nel mercato immobiliare: la comparsa di afroamericani spinge la popolazione bianca a trasferirsi, cedendo gli immobili. L’aumento della componente afroamericana è sinonimo, frequentemente, di accrescimento della povertà; e se i residenti di una parte della città hanno meno risorse economiche a disposizione, il gettito fiscale diminuirà, così come, di conseguenza, la qualità dei servizi pubblici erogati dall’ente di governo territoriale.

Tutto ciò alimenterà “la disoccupazione e, indirettamente, violenza, criminalità ed emarginazione”. D’altronde, come segnalano Boal e Knox, la ghettizzazione ha come correlato una coesione sociale che può avere, e che sovente assomma, differenti funzioni: aiuto reciproco, conservazione, difesa, attacco. L’ultima funzione acquista spesso declinazioni violente: si pensi ai casi di molte banlieue parigine o di quartieri belgi come quelli alle porte di Bruxelles, saliti all’onore delle cronache dopo la serie di attentati di matrice jihadista degli anni Duemiladieci che avevano per protagonisti immigrati di seconda generazione provenienti da tali quartieri.

Un approccio multidisciplinare

L’ideazione e l’applicazione di questi indici può risultare un esercizio inutile, superfluo, e suscita legittime obiezioni da parte di chi ritiene che la statistica non sia la disciplina più adatta per intercettare fenomeni come il malcontento sociale, la segregazione, il rischio di radicalizzazione. Occorre affiancarla, questo è certo, con strumenti quali quelli messi a disposizione da antropologi, storici, sociologi: le scienze “dure”, insomma, non possono funzionare se non supportate da quelle “umane”, qui come in altri casi.

È vero tuttavia anche il contrario, e se ne stanno accorgendo diverse amministrazioni pubbliche. Per esempio, l’Ufficio federale di statistica della Svizzera mette a disposizione, sul suo sito ufficiale, un bigino molto utile a comprendere il significato e la pertinenza di questi indici, e fornisce anche gli esiti di recenti rilevazioni. Bastano pochi clic per trovarsi di fronte a dati come i seguenti:

L’indice di segregazione spaziale è inferiore a 0,26 in tutte le grandi città svizzere; tuttavia alcune città sono più omogenee di altre nella ripartizione per quartieri di nazionali e stranieri e di stranieri nati in Svizzera o all’estero. A Ginevra, gli indici sono molto ravvicinati e non superano 0,08. A Berna e Losanna, gli stranieri di 2generazione o più sono oltre due volte più raggruppati in determinati quartieri che gli stranieri nati all’estero (a Berna 0,26 contro 0,14 e a Losanna 0,16 contro 0,08). A Basilea, gli indici si situano vicino a 0,15, salvo per gli Svizzeri nati all’estero, che risultano i meglio ripartiti (0,03).

Il caso italiano

E in Italia? L’Istat, l’equivalente dell’Ufficio federale svizzero, non mette a disposizione pagine come questa, poiché gli esiti delle rilevazioni sono forniti attraverso i consueti report annuali di cui abbiamo notizia perlopiù attraverso quotidiani e telegiornali. I quali però, per economia, tendono a ignorare argomenti come quelli degli indici statistici atti al rilievo della segregazione. Eppure basterebbe così poco, come si è visto, a fare di tutti noi dei cittadini informati, ad allertarci circa la condizione etnica e sociale delle nostre città. Cioè sul nostro progresso come civiltà.

FONTI

Università degli Studi Aldo Moro di Bari

Ufficio federale di Statistica svizzero

Dematteis, Lanza, Le città del mondo. Una geografia urbana, Utet, 2014

Istat

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