L’identità della divinità: dall’antropomorfismo all’aniconicità?

L’idea di divinità diffusa presso i popoli contemporanei è il risultato della sedimentazione e della stratificazione di molteplici immagini e concezioni, che talora affondano le loro radici in epoche distanti migliaia e migliaia di anni dai nostri giorni. Dalle divinità zoomorfe della grotta di Lascaux, le cui pitture rupestri sono state riconosciute come risalenti a 20 mila anni fa, fino ai più attuali dibattiti circa il genere del Dio cristiano, passando per il pantheon greco-romano, le interpretazioni e le raffigurazioni della divinità sono state varie per diversi aspetti.

La prima rappresentazione di una divinità risale a 25 mila anni fa: si tratta di un essere umano dotato di corna di cervo e pelle di lupo, presente in una rappresentazione scoperta nella grotta dei Tre Fratelli, nel parco naturale dei Pirenei, in Francia. Già dalle origini, insomma, sembra esserci ambiguità tra antropomorfismo e zoomorfismo, le due opzioni prevalenti quando si tratta di attribuire alla divinità una forma.

Zoomorfismo e ibridazione

Lo zoomorfismo, ovvero l’attribuzione alla divinità di caratteristiche fisiche e facoltà tipicamente animali, è tipico delle società preistoriche, e si accompagna a un’altra chiave di interpretazione e raffigurazione, quella della divinità come “signore” di vari elementi naturali. L’antropomorfismo, invece, sembra corrispondere a uno stadio antropologicamente e culturalmente più avanzato. Ma accade sovente che le due letture si fondano, s’intersechino.

Alcuni esempi. Nella città di Efeso, centro di cultura ionica dell’Anatolia, ai tempi dei Greci la dea Artemide rappresentava la vegetazione, e non era una dea cacciatrice, come nella maggior parte della Grecia; probabilmente, ciò è l’effetto dell’ibridazione delle caratteristiche dell’Artemide greca con quelle di una divinità locale, preesistente, molto arcaica (forse preistorica, sicuramente primitiva), venerata dagli indigeni prima dell’avvento dei greci. Ancora: Zeus a Creta viene rappresentato come un giovinetto, e non come signore dei Cieli, e anch’egli è associato alla vegetazione.

L’antropomorfismo del pantheon greco

Quel che è certo è che i Greci avvertivano con orgoglio, però, l’antropomorfismo delle proprie divinità: la consideravano una cifra distintiva non solo, in generale, rispetto alle altre culture con cui si confrontavano, ma anche e soprattutto rispetto al popolo con cui si scontrarono più di frequente e in modo più acceso, il popolo “barbaro”, cioè alieno, estraneo, diverso per eccellenza, i Persiani. Lo capiamo da un passo delle Storie; l’opera storiografica di Erodoto di Alicarnasso, vissuto indicativamente tra il 484 e il 425 a.C.

Al capitolo 131 del primo libro Erodoto scrive quanto segue: “Io so che i persiani hanno i seguenti costumi; non usano innalzare statue, templi, altari, anzi rimproverano quelli che lo fanno, a quando mi sembra perché essi non credono, come invece i greci, che essi abbiano figura umana”.

Gli storici moderni tendono a smentire la notizia erodotea (una delle tante che lo storico formula avvalendosi di una buona dose di fantasia), ma l’aspetto interessante è proprio l’assegnazione di un valore identitario all’antropomorfismo della divinità. Gli déi del pantheon greco, come quelli del pantheon romano, amano, si arrabbiano, discendono sulla terra e si confrontano con gli uomini; non rispettano le leggi né la morale, hanno rapporti sessuali e figli con gli esseri umani.

L’aniconicità

Quella (forse indebitamente) attribuita da Erodoto alle divinità persiane, anzi alla concezione che di esse aveva il popolo persiano ai suoi tempi, è la cosiddetta aniconicità, vale a dire l’impossibilità e anzi il divieto di effigiarle, di rappresentarle concretamente, con delle fattezze umane, o animali, o zoo-antropiche.

L’aniconicità è una caratteristica che discende direttamente dall’ineffabilità, dall’impossibilità di assegnare alla divinità delle definizioni, delle prerogative sensibili, delle affezioni. La stessa ineffabilità è dichiarata per esempio, e a più riprese, da Dante nella Commedia, anzi più precisamente nell’ultima cantica, il Paradiso. Tale caratteristica si traduce, in alcune religioni come l’ebraismo, nel divieto di pronuncia del nome di Dio. Un divieto che ha a che fare con una componente psicologica apotropaica, e che lascia tracce anche negli altri culti monoteistici (il secondo comandamento della religione cristiana recita “non pronunciare il nome di Dio invano”).

Gli attributi di Dio

Molto presto l’Occidente, e in particolare quello cristiano, arrivò a confrontarsi con la questione degli attributi da assegnare alla divinità. Tra questi, per esempio, l’Amore, la Giustizia, o ancora l’Infinità. Nella prima delle cosiddette “epistole copernicane”, indirizzata all’amico e discepolo Benedetto Castelli, Galileo Galilei vuole dimostrare come la lettura letterale, e non figurata, del testo biblico, possa indurre a errori dottrinali che sfiorano l’eresia, la bestemmia: se prendiamo alla lettera la Bibbia, scrive Galileo, allora è necessario dare a Dio mani, piedi, occhi e anche sentimenti umani. Insomma, trasformeremmo Dio in un novello Zeus, quando la capacità del genere umano di produrre astrazioni ha fatto passi avanti, nell’arco di circa un millennio.

Il problema del genere

Un problema molto più recente, risalente agli ultimissimi anni, riguarda il genere da attribuire a Dio. Tale questione si inserisce, com’è ovvio, in quella molto più larga delle disparità di genere e del generale ripensamento della stessa nozione di genere sessuale che è una delle architravi del pensiero liberale dell’Occidente nel Ventunesimo secolo. Il dibattito si è acceso, di recente, soprattutto in Germania, dove l’associazione giovanile cattolica ha avanzato una protesta circa l’attribuzione irriflessa del genere maschile a Dio, a loro modo di vedere un atto discriminatorio. Il portavoce della conferenza episcopale tedesca, Matthias Kopp, ha tagliato corto, facendo capire che la Chiesa ha problemi molto più stringenti e urgenti di questo.

Verso una nuova aniconicità?

Nel 1978, Papa Luciani fu il primo ad associare a Dio il titolo di “Madre”; un’attribuzione contestata da un altro pontefice, Benedetto XVI, che affermò l’illegittimità di tale titolo, e che nella Bibbia quella della Madre è solo un’immagine esplicativa della forza generatrice che rientra negli attributi di Dio.

Tra le proposte avanzate dall’associazione c’è anche l’aggiunta, dopo il nome “Dio”, di un asterisco “compensativo” rispetto al genere maschile del sostantivo. Ma la questione è destinata non solo a rimanere aperta, ma addirittura ad allargarsi, come dimostra il fatto che la stessa associazione giovanile abbia dichiarato anche che “La rappresentazione di un Dio maschio e bianco non è all’altezza e rende più difficile l’accesso di molti giovani alla Chiesa e alla fede”. Quindi, in discussione sono anche altri attributi iconografici, come per esempio il colore della pelle.

C’è da chiedersi, di fronte a tali contestazioni, se l’esito estremo di un tale ripensamento dell’identità di Dio non possa essere proprio l’aniconicità. Un approdo a uno stato antropologico anteriore rispetto a quello antropomorfico? Un avvicinamento all’ebraismo, religione “sorella” del cristianesimo? Più probabilmente, si tratterebbe in fondo di una soluzione salomonica, forse ancor più del già salomonico asterisco.

FONTI

Focus

Il Mattino

Famiglia Cristiana

Erodoto, Storie, Newton Compton, 2021

G. Galilei, Le lettere copernicane, Armando Editore, 1997

 

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