Putin, Quirico, Biden e l’ipotesi del tirannicidio

Gli ultimi giorni hanno dato forma concreta, hanno spostato dal dominio dell’irrealtà a quello dell’ipotesi ciò che molti di noi, a Occidente, nella nostra beata ignoranza, abbiamo augurato o paventato, in ambo i casi sussurrandolo: il tirannicidio o regicidio, l’eliminazione fisica o, in subordine, la rimozione dal suo ruolo di Vladimir Putin. Ne ha parlato l’ex inviato di guerra Domenico Quirico su «La Stampa», guadagnandosi la querela dell’ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov, protagonista di una marchetta davanti alla procura romana di piazzale Clodio. Vi ha alluso il Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, nel suo discorso fuori dal Castello Reale di Varsavia, quando ha asserito che “Putin non può rimanere al potere”, inducendo il suo segretario di stato Antony Blinken a ritrattare, ridimensionare, smentire.

L’ipotesi in questione potrebbe essere risolutoria, non solamente per quel che concerne la guerra in Ucraina ma anche i futuri rapporti tra NATO, Europa e Russia, solo qualora sussistessero due condizioni. La prima è che l’identificazione in Putin dell’unico e perverso demiurgo, del solitario autocrate responsabile del conflitto, corrisponda al vero. Che, insomma, “Vova” sia il vaso di Pandora di questo conflitto, l’origine di ogni male e quindi la sua unica possibile fine. La seconda è che dietro a Putin, pronti a ereditarne l’incarico e i benefit, ci siano mansueti agnellini filo-Washington, pacifisti assolutisti, e non lupi famelici, sciacalli pronti a tutto, e quindi anche a smettere quelle residue cautele che l’attuale tiranno sembra mostrare rispetto allo scenario atomico.

Dmitry Medvedev e Sergey Razov

L’incertezza sul consenso interno

Su nessuno dei due punti abbiamo sufficienti certezze. I sondaggi relativi alla percentuale di popolazione russa favorevole all’invasione dell’Ucraina differiscono sensibilmente quanto a esito. Tutti sembrano fotografare però un sostanziale sostegno al progetto di Putin, oscillante tra il 59 e il 70% degli interpellati.

A sconsigliare di prendere per oro colato tali dati sono vari elementi: anzitutto i metodi della rilevazione, differenti a seconda degli istituti, ma anche la mancanza di consapevolezza da parte di larghe fasce del popolo russo, circa la realtà dei fatti che stanno consumandosi tra Kyiv, Odessa, Mariupol. Infine, a questi sondaggi si affiancano quelli secondo cui la stragrande maggioranza dei giovani russi sarebbe invece contraria all’“operazione militare speciale”. La grande incertezza in merito ci fa dubitare della possibilità di trovare terreno fertile fra la popolazione civile in seguito alla rimozione di Putin dal suo ruolo di comando.

Le carenze della classe dirigente russa

In secondo luogo, va considerato il vuoto pneumatico, di personalità e di intelligenza, che Putin ha creato intorno a sé. Circondandosi di “manutengoli”, per usare le parole di Quirico, Putin ha creato le premesse della ormai ventennale successione a sé stesso. Chi potrebbe prenderne il posto? La classe dirigente russa è stata annientata, nelle sue facoltà critiche e soprattutto nel suo desiderio di impegno civile, da due decenni di putinismo. E anche qualora si imponesse un nome sugli altri, più autorevole, più stimato dalla comunità internazionale e dai compatrioti, occorrerebbe verificarne non tanto l’autenticità dei sentimenti, quanto la capacità di resistenza futura di fronte alle inevitabili pressioni, interne ed esterne, che l’isolamento economico è destinato a produrre.

John Locke

La teoria di Locke e una nuova Loreto

Infine ci sarebbe da considerare le modalità di attuazione del piano sovversivo. Non ci è consentito di sbirciare quelle aride cartelline in cui le intelligence di mezzo mondo espongono ogni possibile scenario, ma in sostanza le ipotesi sono due. C’è quella, assai più improbabile, di un moto di piazza, di una “primavera russa”. Scrive John Locke, uno dei sommi teorici del regicidio:

Se gli atti legali si sono estesi alla maggioranza del popolo, o se il maltrattamento e l’oppressione hanno toccato soltanto poche persone, ma in casi tali, che essi costituiscono un precedente e hanno conseguenze che sembrano minacciare tutti gli altri, e se questi sono persuasi nelle loro coscienze, che le leggi e con esse le loro proprietà, libertà e vite sono in pericolo, e forse lo è perfino la loro religione, non saprei dire come si possa impedir loro di far resistenza alla forza illegale usata nei loro confronti.

In questo caso dovremmo prepararci a vedere il corpo del leader, quello mostrato in groppa a un cavallo o ai bordi di un lago, martoriato ed esposto al pubblico ludibrio. Mosca come una nuova Loreto, o una nuova Tripoli.

La teoria di Tommaso: il tirannicidio come atto pubblico

Invece, un sovvertimento dello status quo traghettato passo dopo passo da una cancelleria occidentale, insomma una congiura di palazzo eterodiretta e realizzata per il tramite qualche luogotenente che da galoppino, si trasformi, adeguatamente ricompensato, in giustiziere, è assai più verisimile del precedente. E risponderebbe al requisito posto da San Tommaso d’Aquino, secondo cui a uccidere il sovrano dovrebbe essere chi ricopre ruoli pubblici, e non il popolino gretto e caotico.

Il precedente

Insomma, il tirannicidio appare, allo stato attuale delle cose, un rischio, più che un’opportunità. Lo segnala anche Quirico, che cita il caso di Gavrilo Princip e dell’Arciduca Francesco Ferdinando: nel 1914 l’omicidio provocò il caos, diede libero sfogo a tensioni accumulatesi nei decenni, fece cadere il velo ipocrita delle diplomazie. Chi ci assicura che, rimosso uno dei contrappesi, la cattedrale della pace mondiale non crolli al suolo? Non è forse lecito attendersi che la vacanza russa possa rinfocolare gli animi in teatri di guerra mai sopita, leggesi Siria, Afghanistan, Libia?

Il corpo del leader

La stessa ipotesi di tirannicidio ri-chiama in causa, inoltre, una pluralità di sostrati antropologici e culturali che apparivano consegnati al passato. Lo stesso timore del sovrano per la propria integrità fisica sembrava sinonimo di terzo mondo, appannaggio dell’ultimo despota mediorientale o africano condannato a morte da una revolverata ricevuta sul suo pulpito oratorio/oracolare. E invece no.

Ai bordi di quel tavolo chilometrico abbiamo scoperto la paura atavica del tiranno, dell’imperatore del regno sospeso tra Europa e Asia, nei confronti del microbo invisibile. Ne abbiamo scrutato attentamente il corpo, alla ricerca del minimo segno della malattia: il gonfiore del volto, i tic delle braccia. Abbiamo temuto, ci siamo raccontati che la coscienza dell’irreversibilità delle sue condizioni fisiche aggiungesse alla crudeltà l’avventatezza di chi non ha nulla da perdere. Ora, il corpo del leader torna in questione, ma in relazione all’opportunità di stanarlo.

 

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