“Pam & Tommy”: guardare o non guardare?

It’s like we’re seeing something we’re not supposed to be seeing

Pam & Tommy è un dilemma shakespeariano. Guadare o non guardare? Ed eventualmente in che misura, fino a dove è lecito spingersi? È questione di etica, argomento di giustizia o ha piuttosto a che fare con la mortificante differenza in centimetri di tessuto che separano una natica scoperta da una incensurabile? Interrogativi che si intersecano come fili all’interno di una articolata ragnatela concettuale costituente la fondamentale ossatura della nuovissima miniserie targata Disney Plus. Uno show ideato da Malcolm Spellman (The Falcon and The Winter Soldier) che, distribuito a partire dal 2 febbraio scorso, racconta lo scandalo che sul finire degli anni ’90 investì i due super divi Pamela Anderson e Tommy Lee, derubati di un proprio video intimo, subito diffuso e divenuto virale sull’allora neonato World Wide Web.

James e Stan: tra umiliazione e maschilismo inconscio

Da una parte la diva di Baywatch, la superstar televisiva e icona sexy di quegli anni; dall’altra lo scatenato batterista dei Mötley Crüe e il suo amore per l’esagerazione. A fare da sfondo (o forse sarebbe meglio dire in primo piano) un periodo storico contrassegnato da cambiamenti a dir poco epocali, destinato a modificare per sempre la nostra percezione del mondo.

Lily James presta volto e forme a una Pamela Anderson sognatrice, alla ricerca della miglior versione possibile di sé. Una Pam che guarda a Jane Fonda, che agogna l’essere e non l’apparire, che ambisce alla libertà e al rispetto che derivano dall’essere inquadrata “dal collo in su”. Ma Lily James è, prima ancora, una Pamela incatenata, costretta in un metaforico panottico di telecamere, occhi e becere dinamiche produttive che la osserva e dipinge come un qualsiasi pezzo di carne. Una prigione dorata di falsi sorrisi, umiliazioni e speranze infrante (Barb Wire e L.A.Confidential), stilisticamente impreziosita dall’alternarsi di silenzi e sequenze musicali in stile videoclip, atte quasi a riportare la James al corpo e alle atmosfere della Debora di Baby Driver.

Ad attenderla, sulla soglia di un auto extra lusso, non vi è però la sfrenata dolcezza di Ansel Elgort, bensì la rabbia a dir poco irrequieta di un allucinato Sebastian Stan (“Che cazzo c’è da guardare?”). Un Sebastian Stan lontano anni luce dal contesto supereroistico che l’ha reso noto al grande pubblico, e al contempo spiritualmente vicino a quella ambiguità che è tratto distintivo del suo Winter Soldier. Il suo Tommy Lee, pericolosamente in bilico tra Bucky Barnes e il Soldato d’Inverno, avvicenda il proprio ruolo di amante alleato (e co-vittima) a quello di nemico inconsapevole, palesandosi spesso come ennesima manifestazione di un maschilismo radicato e quasi inconscio.

E se fossimo noi?

Un maschilismo che all’interno di Pam & Tommy ha sembianze mutevoli e multiformi: quelle di un giudice che maschera il patriarcato dietro a una ignominiosa sentenza; quelle di un’intervista televisiva, decisa ad anteporre lo share e l’audience al rispetto della persona; o ancora quelle del desiderio di rivalsa di un tuttofare maltrattato.

Quel Rand Gauthier (Seth Rogen) che profuma di anni ’90, che pare un goffo ladro di sex tape appena uscito da una sitcom, con una bizzarra passione per il mondo delle religioni e una solitudine sentimentale palesata in un più che evidente trasporto affettivo nei confronti della “ex” moglie lesbica ( Ross Geller sei forse tu?). Quel Rand Gauthier che veste i panni di maldestro antagonista della vicenda e che, tragicomico fiocco di neve che diviene valanga, funge da principale filtro per osservare la nascita della rivoluzionaria epoca del Web, con le sue infinite applicazioni e le potenzialmente distruttive ripercussioni sociali, qui investigate in una primordiale fase in divenire.

Un’epoca di cui la serie mostra dunque solo i primi fanciulleschi vagiti, ma che riesce subito a mostrare, con un evidente grado di chiarezza, il potere della rete così come oggi lo conosciamo. Un potere di fronte al quale lo spettatore, navigato conoscitore di qualsivoglia magagna informatica, si relaziona quasi come un appassionato di film horror: conoscendo cioè approfonditamente le dinamiche del delitto che sta per compiersi senza tuttavia privarsi del privilegio (e forse del piacere) di assistervi.

Un’epoca perciò dai confini sfumati, all’interno della quale chiunque può ritrovarsi ad essere Rand, ad essere uno dei “cattivi”. Persino noi spettatori e fan accaniti, che consumiamo avidamente ogni minuto della serie, pur sapendo che il pur non necessario consenso della vera Pam per la sua realizzazione non è mai stato dato.

Forse, ancora una volta, “it’s like we’re seeing something we’re not supposed to be seeing”?

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