La cancel culture anti-russa e il sonno dell’intelligenza

Le ultime settimane hanno portato in dote eventi di una portata inimmaginabile: davanti ai nostri occhi si sta palesando il significato di una celebre massima di Lenin, secondo il quale possono esserci decenni in cui non accade assolutamente nulla e poi settimane “in cui accadono decenni”. La guerra in Ucraina non si è limitata a causare una crisi umanitaria, economica, valoriale, ha anche scoperchiato ipocrisie e mancanze congenite della società occidentale. Fra queste, soprattutto un “sonno dell’intelligenza” sempre più dilagante, che emerge da frasi fatte (“dopo il Covid, ci mancava la guerra”, come se il vero problema fossero i nostri pensieri turbati, e non il dramma che si consuma a pochi chilometri dalle nostre frontiere) e da pratiche quantomeno discutibili, quando non decisamente irricevibili, quale quella della “damnatio memoriae”, o “cancel culture”, che colpisce gli esponenti e i prodotti della cultura e della società russa.

Un atteggiamento di questo genere è il frutto dell’applicazione di una logica manicheistica, o, se si vuole, da tifoseria calcistica, a ogni aspetto della nostra vita. È una manifestazione di una tendenza alla semplificazione banalizzante e per ciò stesso rassicurante; una tendenza che discende dalla fretta con cui tendiamo a giudicare, valutare, agire. Inoltre, essa è intimamente correlata all’appiattimento in un sempiterno presente, alla mancanza di memoria storica e di capacità di contestualizzazione che sono il marchio della nostra epoca. Spesso il “politically correct” sembra essere la versione annacquata e masochisticamente arrotata su se stessa dell’impegno civile e politico. Quell’impegno che fino a qualche anno fa sembrava consustanziale al vivere associato. La soluzione psicologicamente compensatoria rispetto alla percezione della propria irrilevanza nella società, dell’incapacità di indirizzarne i flussi di tendenza attraverso il voto o la partecipazione.

Il caso-Nori e il Kiev Mule

I casi dell’Università Bicocca, che ha deciso di sospendere un convegno del Professor Paolo Nori circa l’opera di Dostoevskij, e quello di molti bar italiani che hanno optato per rinominare il cocktail “Moscow Mule” nella versione “Kiev Mule”, sono pericolosamente e imprevedibilmente simili. Anzi, se il gesto dei bartender può risolversi, nella sua assurda ingenuità, in un’espressione simbolica di sostegno al popolo ucraino, quello di un’università come la Bicocca è il simbolo dell’arretramento culturale delle sedi del sapere istituzionalizzato.

La soluzione d’emergenza ideata per stemperare le polemiche, l’affiancamento al russo Dostoevskij di un autore ucraino, trascende decisamente il limite del ridicolo. Sulla stessa scia si collocano il caso dell’allontanamento dalla Scala di Milano del direttore d’orchestra Valerij Gergiev, reo di non aver espresso un giudizio di condanna rispetto all’invasione russa, e l’esclusione della nazionale di Mosca dai play-off di accesso ai mondiali di calcio. Si tratta di decisioni atte a sopprimere una cultura, a tabuizzare una lingua, ad ammansire l’orgoglio di una nazione: per paradosso, il comportamento di noi occidentali, giustamente tronfi del successo della democrazia e del liberalismo, non è mai stato più vicino a quello illiberale adottato da un dittatore come Putin nei confronti delle regioni dell’ex Rus’.

Paolo Nori

L’analogia col caso Gorman

Situazioni come quelle descritte ricordano, per paradosso, la polemica vicenda relativa al libro di poesie The hill we climb, di Amanda Gorman. In quel caso, le case editrici rescissero i contratti di qualsiasi traduttore non disponesse di tre requisiti: l’essere giovani, donne, nere. Chiamata a commentare questa scelta, sulle colonne di «Repubblica», Ginevra Bompiani usò parole perfette per raccontare l’epoca in cui viviamo: a suo dire, l’episodio “la dice lunga su quale è oggi lo statuto dell’intelligenza, si pensa che per capire una cosa bisogna essere quella cosa. Come se non ci fosse un lavoro, un movimento dell’intelligenza. Questo dimostra quanto l’intelligenza si sia molto ridotta ultimamente […]”.

Come nel caso-Gorman si pensava che “per capire una cosa bisogna essere quella cosa”, oggi, nel frangente del conflitto russo-ucraino, si ritiene al contrario che “essere quella cosa”, cioè russi, impedisca di pensarla diversamente dal proprio leader. O che comunque l’onere della prova spetti all’imputato. Insomma, i casi in esame sono accomunati dall’assurda fede in una coincidenza fra identità bio-cultural-etnologica e pensiero.

Essere dissidenti non basta

Come ha scritto ironicamente un utente di Twitter, la soluzione al caso della Bicocca era in fondo molto semplice: sarebbe stato sufficiente che lo stesso Dostoevskij si dissociasse dall’invasione russa dell’Ucraina. Eppure, nemmeno i distinguo, le prese di posizione anti-putiniane, le manifestazioni anti-bellicistiche sono bastate nel caso della violoncellista russa Anastasia Kobekina, il cui concerto in Russia è stato annullato nonostante la stessa avesse duramente condannato il conflitto in Ucraina. O in quello di Kirill Serebrennikov, i cui film sono stati banditi da alcuni Paesi nonostante il regista abbia addirittura trascorso un periodo in carcere, qualche anno fa, per le sue posizioni avverse al regime russo. O ancora quello di Alexander Gronsky, dissidente russo, fresco di arresto in patria, la cui mostra a Reggio Emilia è stata annullata definitivamente.

L’esclusione dalle Paralimpiadi

Sorprende che provvedimenti come quelli elencati siano stati assunti anche da enti che dovrebbero prefiggersi per statuto l’inclusione e la salvaguardia del principio di pari opportunità come il Comitato olimpico internazionale (CIO), che ha determinato l’esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle Paralimpiadi di Pechino 2022. Ottenendo un effetto imprevedibile e controproducente: implicitamente, il provenire da un paese belligerante è stato considerato peggiore del far parte di una federazione responsabile di un “doping di stato”, com’era stato riconosciuto in passato quello russo, dato che questa seconda condizione aveva portato “semplicemente” a impedire agli atleti di disputare le gare sotto alla propria bandiera.

Il sonno dell’intelligenza

La questione dell’illiberalismo della sinistra occidentale, sollevata dal quotidiano britannico «The Economist», è certamente problematica e attuale, ma alla base del fenomeno della cancel culture esiste un vulnus molto più profondo, radicato. Si tratta della tendenza a un annichilimento delle facoltà critiche alimentato proprio dalle istituzioni che dovrebbero promuoverle, come quelle scolastiche, universitarie, come le fonti di informazione; spesso questo appiattimento è il frutto dell’eccesso di importanza attribuita alla compliance, al giudizio dell’opinione pubblica. Nella società dei like, un qualsiasi provvedimento che possa lasciare margine d’interpretazione rispetto alla scelta di campo assunta, viene etichettato “divisivo”, esattamente la parola scelta dalla Bicocca per giustificare la cancellazione delle lezioni del professor Nori; peccato che la divisione, l’apertura di un canale dialettico, sia l’unica premessa possibile all’avanzamento culturale, mentre la cancellazione, la rimozione, l’obliterazione ha come unico esito possibile la stagnazione e un successivo arretramento.


 

 

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