Il peso etico e il significato dei “-washing”

Negli ultimi anni si stanno moltiplicando i termini in lingua inglese con suffisso –washing che appaiono sempre più spesso sui social e anche nelle notizie in tv. Soprattutto dal 2018 ad oggi, grazie ai Fridays for Future, il termine greenwashing è ormai sulla bocca di tutti.

Sicuramente il greenwashing è uno dei termini in -washing più diffuso, ma cosa significa? E quali sono gli altri? Possiamo infatti sentire parlare anche di pinkwashing, whitewashing, rainwbow washing e purplewashing. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta e quali utili concetti trasmettano, iniziando proprio dal greenwashing.

I vari fenomeni nel dettaglio

Greenwashing

Letteralmente traducibile come “lavaggio verde” si può rendere in italiano come “ecologismo/ambientalismo di facciata“, in cui il termine green indica la sostenibilità e il rispetto per l’ambiente. Con questo termine si indicano tutte le misure per dare una facciata di sostenibilità ad attività di varia natura, maggiormente nell’ambito della moda, con gioielli e indumenti, ma non solo.

Moltissime altre compagnie, ad esempio coloro che lavorano con i trasporti o carburanti, stanno iniziando ad aggiungere la sezione “sostenibilità” sui propri siti. Il problema del greenwashing è che generalmente consiste in misure blande, a livello di impatto ambientale, che non mirano affatto a ridurre l’impatto sull’ambiente o a risolvere i problemi che si creano, bensì a evitare lo stigma dei possibili clienti e della società per puro profitto, di fatto creando un vero e proprio inganno ai danni dell’ambiente e di chi ci vive, cioè l’intera popolazione mondiale.

Alcuni esempi di greenwashing – e delle sue conseguenze – sono quelli di Eni, Shein ed H&M.

Eni e il greenwashing

Per quanto riguarda il primo caso, nel 2020, dopo la decisione di introdurre educazione ambientale nelle scuole, si è saputo che a formare i docenti sarebbe stata proprio Eni, una delle principali estrattrici e produttrici di gas e petrolio. Far sì che Eni si occupi della formazione in campo di impatto ambientale non solo sembra ironico, dato che si tratta di una multinazionale accusata di diversi disastri ambientali che dovrebbe impartire lezioni di rispetto dell’ambiente, ma è pericoloso, perché avendo in mano la propria narrativa è più semplice occultare le proprie colpe o errori e la vera mancanza di sostenibilità della stessa.

Sempre nel 2020 l’Antitrust ha infatti condannato Eni al pagamento di una multa di 5 milioni di euro per pubblicità ingannevole, sul “green diesel”. Non solo privati e attivisti hanno espresso la propria preoccupazione riguardo l’entrata in scena di Eni, ma si sono esposte anche Legambiente e Greenpeace.

La moda e il greenwashing: H&M e Shein

Passando al campo della moda, invece, un esempio sono la svedese H&M e la cinese Shein.

Con l’aumentare della copertura mediatica riguardo i cambiamenti climatici e la necessità di adottare il prima possibile degli stili di vita con il minor impatto ambientale possibile, nel mondo della moda, soprattutto della fast fashion, il greenwashing è diventato quasi una necessità (laddove manchi la voglia di essere direttamente sostenibili). Delle maniere per farlo, sebbene esistano sempre più leggi e controlli a tal proposito, sono trovare appigli e scappatoie nelle leggi o presentare proposte e messaggi in maniera molto ambigua.

H&M ha da tempo lanciato la propria linea “conscious” (già il nome rimanda a qualcosa di coscienzioso, quindi sostenibile), pubblicizzandola con foto bucoliche, piene di verde, scattate nei campi. Il marchio ha anche creato una fondazione omonima che dona soldi a delle associazioni che dovrebbero migliorare le condizioni di vita e lavoro di coloro che producono indumenti, in Bangladesh. Scorrendo il manifesto della loro campagna si può leggere che i materiali utilizzati per i prodotti di H&M derivano da fonti sostenibili e che il loro cotone sia al 100% biologico.

Il problema è che “materiali derivanti da fonti sostenibili” significa tutto e niente. Sono stati coltivati eticamente? Oppure sono stati trattati eticamente? O si parla della lavorazione? Anche la dicitura “100% in cotone biologico” non specifica che gli indumenti saranno al 100% in quel cotone, vanificando quindi tutti gli sforzi. Inoltre, non viene specificato a quanto ammonti la percentuale di abiti “conscious” tra tutte le linee presenti e in quali condizioni abbiano lavorato coloro che li producono e a che prezzo.

Shein, invece, è una società cinese famosa per i suoi prezzi bassissimi e costanti sconti. Tristemente nota per i molteplici casi di plagio nei confronti di piccoli imprenditori, ai quali copiano pedissequamente capi e per i quali difficilmente sono perseguibili legalmente per via di cavilli legali e burocratici, costituiscono il primo produttore di poliestere e micro-plastiche al mondo nell’ambito della moda.

Il sito Good On You, che analizza e dà un punteggio a vari brand tenendo in considerazione la sostenibilità, il rispetto dei lavoratori e degli animali, assegna loro il punteggio più basso, sconsigliando caldamente Shein. Nonostante ciò, la società afferma di essere sostenibile, vantandosi di non usare pellicce. Purtroppo però, utilizza lana, quasi sicuramente derivante da un processo violento, brutale e doloroso quale il mulesing, unica maniera per andare incontro ai loro prezzi così bassi.

Pinkwashing

Traducibile come “lavaggio rosa”, indica due fenomeni distinti. Il primo è la pratica, sempre da parte di attività, società e brand, di dichiarare di sostenere la lotta contro il tumore al seno, senza intraprendere alcuna misura reale e anzi, spesso immettendo nel mercato prodotti cancerogeni. Ad esempio, nel 2011 Avon promosse una campagna di raccolta fondi abbracciando la causa, eppure molti ingredienti contenuti nei loro rossetti, creati ad-hoc per l’occasione, erano potenzialmente cancerogeni.

Il secondo, invece, riguarda la comunità LGBTQI+ e indica il fenomeno tramite il quale il governo israeliano si sia nel corso del tempo apertamente schierato più volte a favore dei diritti LGBTQI+, pur continuando a perpetrare pulizie etniche e violenze ai danni della popolazione palestinese. Come spiegato da Marianna Fatti:

Questo attraverso campagne marketing ed eventi ad hoc che proponevano il paese come la “mecca gay” del Medio Oriente, e un rifugio per i gay palestinesi che, secondo Israele, erano oppressi in un paese non abbastanza civilizzato da riconoscere i loro diritti. In realtà, non solo di fatto la comunità LGBTQ+ palestinese non viene coinvolta in questi programmi, e il paese continua a non riconoscerne i diritti sul piano legale, ma se anche erano i benvenuti come “rifugiati” a Tel Aviv, la loro identità araba e palestinese veniva subdolamente repressa. Questa tattica ha generato enormi proteste organizzate, come Pinkwatching Israel, che sostiene la causa del movimento palestinese “BDS” (Boycott, Divest, Sanction- Boicottare, Disinvestire in e Sanzionare [Israele]). Questo tipo di pinkwashing è stato osservato anche in USA, Francia, Olanda, e rientra nel fenomeno chiamato “omonazionalismo”: persone LGBTQ+ e i loro diritti vengono assimilate a movimenti di (estrema) destra e nazionalisti ed alla loro propaganda anti-islamica e anti-immigrati, con il pretesto di difenderli dal “fanatismo omofobo” delle minoranze religiose.

Whitewashing

Il “lavaggio bianco”, dal verbo “to whitewash” che significa imbiancare, probabilmente è di più facile intuizione rispetto al precedente. Indica il fenomeno attraverso il quale, soprattutto nel mondo del cinema, spazi e ruoli vengono assegnati a persone bianche caucasiche sebbene spettassero – o originariamente fossero – di persone nere, asiatiche o di altre etnie e origini.

Ovviamente ciò porta alla cancellazione di fette di storia di minoranze etniche e riduce la possibilità per attori e attrici non bianche e caucasiche di potersi far spazio in un’industria ancora elitaria. Alcune pratiche collateralmente connesse con il whitewashing sono la blackface e la yellowface. Letteralmente “faccia nera” e “faccia gialla”, consistono nel truccare persone bianche caucasiche in maniera tale da farle passare per nere o asiatiche, facendo in modo di non assumere persone davvero nere e asiatiche e non dando loro né visibilitàpotere sulla propria storia ed immagine. In Italia, fino al 2021, la pratica della blackface è rimasta diffusa e impunita, causando non solo sdegno e offesa nella comunità nera italiana, ma anche shock dall’estero (come spiegato qui).

Rainbow washing

Il “lavaggio arcobaleno”, è per certi versi affine al pinkwashing nei confronti della comunità LGBTQI+. Si tratta della tattica tramite la quale società, grandi brand e attività economiche varie, soprattutto a ridosso di giugno, il Pride Month, iniziano a mettere in commercio accessori e oggetti con sopra arcobaleni, bandiere, slogan che rimandino ai diritti e alle battaglie LGBTQI+, ben guardandosi dal devolvere una parte dei ricavati per contrastare l’omotransfobia o addirittura essendo di proprietà di persone o brand dichiaratamente omotransbifobici.

Purple washing

Il “lavaggio viola”, spesso tradotto come “lavaggio lilla”, consiste nello sfruttare una facciata di femminismo in varie forme per distrarre l’attenzione da politiche, pratiche o anche opinioni ben poco femministe.

Un esempio sono le prese di posizioni, da parte di persone occidentali, con una forte matrice orientalista, riguardo questioni quali vestiario e diritto delle donne musulmane, ma con pochissima cognizione di causa. Le stesse persone che puntano il dito verso l’hijab o alcuni usi di Paesi stranieri a maggioranza musulmana, in nome dei diritti delle donne, sono gli stessi che in Patria non si sbilanciano riguardo questioni di genere più sottili o addirittura contribuiscono a mantenere i piatti della bilancia sbilanciati.

Le implicazioni etiche e umane

Com’è possibile iniziare a osservare, tutti questi termini ci riportano a concetti eticamente lacunosi, il cui unico scopo è il profitto e la produzione, a discapito non solo dell’ambiente, degli animali e delle lavoratrici e lavoratori, ma di chiunque, anche dei potenziali clienti.

Nessuno ci guadagna dal danneggiare l’ambiente, dal mettere a tacere a lungo termine intere categorie di persone e, soprattutto, a nessuno piace essere preso in giro, una volta scoperto l’inganno.

Proprio per queste ragioni, e alla luce di quanto visto, è sempre più eticamente impellente la necessità di acquistare o supportare brand o privati il meno dannosi possibile, sotto ogni frangente.

Destreggiarsi tra tutti questi fenomeni, soprattutto a livello economico, può non essere affatto semplice. Bisogna parlarne sempre di più, in maniera tale che sempre meno persone supportino queste realtà, riversandosi su attività e società oneste e sostenibili, contribuendo anche, a lungo termine, a rendere più accessibili economicamente a più persone brand e prodotti ancora elitari e garantendo trattamenti più umani per tutte le persone coinvolte.

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